Siamo ormai alla vigilia del Congresso fondativo di Sinistra Italiana. Sono convinto che si tratti di un appuntamento importante, per chi vi parteciperà direttamente e, spero, per un mondo più largo convinto che sia necessario in questo Paese dare nuova forza a una proposta della sinistra. Penso che, come in molti abbiamo detto all’indomani del voto del 4 dicembre, con la sconfitta della riforma Renzi-Boschi vada archiviata la stagione del governo del capo, frutto della lunga fase maggioritaria. Per questo sono convinto che Sinistra Italiana debba, prima che sui nomi, decidere quale strada intraprendere, quale sia la sua ragione fondativa, in quale modo dare gambe e corpo a un progetto collettivo e condiviso.

Da troppo tempo infatti, anche a sinistra, alla crisi dei partiti si è risposto con la scorciatoia dei leader, del marketing, dei comitati elettorali fondati magari su modalità discutibili di tesseramento. Occorre, innanzitutto su questo terreno, una svolta radicale. Tra di noi c’è chi dice che il problema da cui dobbiamo guardarci è l’autosufficienza identitaria e, se capisco, la conseguente composizione di cartelli elettorali fatti da sigle e siglette. Sono d’accordo. L’autosufficienza non è mai una risposta.

Ma credo che il nostro problema, il problema numero uno della sinistra in Italia e fuori dai nostri confini, sia un altro: lo svuotamento, se non il rovesciamento, delle parole che compongono il nostro lessico politico. Che vuol dire, per chi vive in questo paese, «centrosinistra»?

Che significa «riformismo», una parola che provoca ormai nei più la ricerca istintiva di un riparo contro una nuova espropriazione di diritti, di reddito, di dignità? Bisogna tornare a scrivere le parole del cambiamento, ridare credibilità a ciò che l’ha persa. Alla «politica» stessa, alla «sinistra» in particolare.

Serve dunque una cesura. Netta: il coraggio di mettere in discussione l’ordine del discorso. Occorre disertare dalla “sinistra” che ha scelto di misurare la propria utilità sul terreno della compatibilità di sistema. Occorre elaborare una proposta politica che abbia l’ambizione di delineare una alternativa di società. È una prospettiva minoritaria? È una rinuncia all’ambizione di governo? Non credo. Non è minoritario mettere in discussione un mondo in cui poche persone detengono la ricchezza della metà della popolazione, non è velleitario tornare a porre la questione della riduzione dell’orario di lavoro in un mondo in cui pochi lavorano sempre di più e in condizioni sempre peggiori e una stragrande maggioranza arranca tra la precarietà e l’esclusione. Redistribuire reddito, puntare sulla lotta ai cambiamenti climatici e a un modello di sviluppo incompatibile con la vita del pianeta, sono oggi proposte realiste, non promesse tanto belle quanto irrealizzabili come ci viene detto anche in quello che alcuni chiamano «campo progressista». Lo stesso vale per la scuola e per gli apparati formativi ridotti alla parodia di una azienda poco competitiva. Vale per quella che Arturo Scotto ha chiamato la rivoluzione delle donne, curiosamente associata alle imponenti marce contro Trump ma non alla splendida manifestazione del 26 novembre a Roma. Vale per il nostro continente, dove la retorica europeista non ci salva dalla regressione sovranista dei protagonisti del vertice delle destre europee che tanto ci spaventa.

Di fronte a questa paura non c’è nostalgia che tenga. Non ci protegge la riedizione di qualche formula antica. La destra non vince perché il centrosinistra si è diviso. Vince perché la cosiddetta sinistra di governo ha fatto politiche di destra. Vince perché il riformismo si è arenato nell’esaurimento dei margini di mediazione sociale causato dalla crisi e dalle scelte che ne hanno aggravato gli effetti. Vince perché l’ansia di esorcizzare lo spettro del populismo prevale, anche tra di noi, sulla necessità di interpretare e indirizzare le domande, pure ambivalenti, di un popolo provato e frammentato da quattro decenni di neoliberalismo.

Dunque occorre scartare. Il nostro congresso sia un passaggio: l’apertura e non la chiusura di un processo. Aprirsi è una necessità, non una concessione. Dovremo guardare con attenzione e curiosità a tutto ciò che vive fuori di noi. Prima di tutto, però, a chi con noi ha condiviso una scelta, un prendere parte – facciamo un partito, per l’appunto. Il 4 dicembre ha cambiato tutto: se lo pensiamo davvero, guardiamo innanzitutto a chi il 4 dicembre ha contribuito a questo cambiamento. Alle mille sinistre, come dice Montanari, che vivono e crescono lungo la penisola, alle sinistre politiche, a quelle civiche, e quelle sociali. Con loro dobbiamo formulare un progetto, per cambiare i rapporti di forza. Non per esistere. Non per uno spazio nel “panino” dei telegiornali.

E poi cura. Cura del partito. Tornare a immaginare l’organizzazione come una dimensione non burocratica ma vitale. Il partito come un mezzo, uno strumento collettivo. I gruppi dirigenti tornino a misurarsi col consenso degli iscritti, dei militanti. Abbiamo bisogno di imparare, nuovamente, il senso della verifica. Sulle grandi scelte, quelle che segnano il destino di una comunità si torni a chiedere alla nostra comunità di esprimersi, prima e non dopo, in modo vincolante. È una cosa semplice, ma allo stesso tempo difficilissima, dopo anni passati a fare il contrario. Ci pone il problema della legittimazione continua delle scelte. Gli eletti tornino, tutti, a contribuire economicamente alla vita del partito. Mettiamo le risorse a fattor comune, non solo per finanziare la nostra attività ma anche per dare gambe a forme di nuovo mutualismo. Lì c’è l’ossigeno per una sinistra utile. Vorrei un partito impegnato a riconquistare la società prima della società politica. Questo viene prima dei nomi, dei ruoli, degli incarichi. Certo le persone contano. Siano le compagne e i compagni a decidere chi sia più indicato/a a svolgere una determinata funzione. Ma sia il che fare, come farlo e con chi farlo a venire prima.