All’ospedale San Giovanni di Roma, i medici e gli infermieri diretti dalla dottoressa Lauretta Tribuzi vaccinano una quarantina di bambini ogni mattina. Di solito ci si mette in fila verso le otto e mezza, senza appuntamento. Oggi, però, i numeri che danno diritto alla puntura sono già esauriti all’alba. Quando i primi infermieri prendono servizio, trovano una piccola folla in sala d’aspetto. Barbe lunghe, scarmigliate dalla levataccia, e molte donne immigrate da Etiopia e Bangladesh: siamo a due passi da Piazza Vittorio, storico e imborghesito crocevia multietnico.

Sembra l’esercito del Sert, ma l’agognata siringa è quella che inocula il vaccino contro la meningite. A che ora bisognava arrivare? «Alle cinque e mezza ho preso il numero trentasette – sbuffa un quarantenne con occhiaie notevoli – Il primo era qui alle due meno un quarto».

UNA NOTTE ALL’ADDIACCIO solo per una vaccinazione? «Roba da terzo mondo – sbuffa una ragazza – Veramente, da noi il vaccino te lo portano a casa», risponde l’altra, straniera. Punti di vista. Stavolta la colpa non è della disastrata sanità italiana ma della prima, irrazionale paura del 2017: il meningococco, una psicosi collettiva alimentata da una campagna allarmistica sui media. Proprio mentre la politica discute di post-verità.

Arriva la dottoressa Tribuzi. Non si toglie nemmeno il cappotto e improvvisa una piccola conferenza sulla sediola della sala d’aspetto. «I casi di meningite sono in calo. Comunque, follia per follia, qui ci sono rimaste solo 26 dosi di vaccino tetravalente. Gli altri dovranno accontentarsi del vaccino per il solo ceppo C. Le nuove dosi arriveranno la prossima settimana. Ma sappiate che non c’è alcuna emergenza. Non date retta alla televisione». Anche sul web, però, è uno stillicidio: «Treviso, uomo ricoverato per #meningite, è grave», notifica Twitter, e non sono ancora le otto. La sala d’aspetto è un bunker in tempo di guerra.

Il fatto è che con «meningite» si intende un insieme composito di malattie, e non solo l’infezione dovuta a Neisseria meningitidis, il vero nome del meningococco. Il numero e le segnalazioni, dunque possono allargarsi un po’ a piacere, secondo il livello di panico desiderato. Per esempio, molti casi riportati dai media non sono nemmeno di origine batterica. Dunque, non comportano rischio di contagio. Ma con l’attenzione alle stelle, ogni occasione è buona per mettere un nuovo caso in homepage e rimediare qualche «like», innescando un circolo vizioso di attenzione morbosa e paura ingiustificata. Secondo i dati del sito Google Trends, gli utenti che cercano informazioni sulla meningite sono sestuplicati nel solo mese di dicembre, e sono aumentati di oltre cento volte dal 2014 a oggi.

LE CIFRE UFFICIALI dell’Istituto Superiore di Sanità, invece, aiuterebbero a mantenere la calma. «Nella maggior parte delle Regioni l’andamento è pressoché stabile o presenta piccole oscillazioni nel triennio 2011-2014, tranne che in Toscana dove sia i dati consolidati del 2015 che i dati preliminari 2016 mostrano un marcato aumento di casi di meningococco di tipo C negli adulti», scrive il sito dell’Istituto.
Anche in Toscana non c’è un’emergenza generalizzata. I casi in eccesso riguardano quasi esclusivamente le infezioni da meningococco di tipo C, passate dalle poche unità del 2012 ai 40-50 casi del 2015 e del 2016. Il focolaio coinvolge finora soprattutto pazienti adulti e localizzati nella valle dell’Arno tra Firenze, Prato, Empoli e Pistoia. La regione ha reagito con una campagna di vaccinazione gratuita che ha raggiunto finora 750mila persone. Non bastano ancora per la cosiddetta «immunità di gregge», la soglia oltre la quale anche gli individui non vaccinati risultano protetti, in quanto la probabilità di entrare in contatto con il virus è virtualmente nulla.

Nelle altre regioni, finora la vaccinazione anti-meningocco era gratuita per il ceppo C, mentre per la tetravalente e il ceppo B i costi variavano notevolmente. Nel Lazio, si arrivava a quasi duecento euro, richiami compresi. Da dicembre, il ministero ha definito i nuovi «livelli essenziali di assistenza», in base al quale vaccinare i bambini contro la meningite sarà gratuito in tutta Italia (vedi scheda, ndr).
Fino a poche settimane fa gli italiani si vaccinavano troppo poco per via di una frode scientifica delegittimata da anni (quella che legava vaccini e autismo), mentre oggi fanno la fila alle Asl per una pandemia che non c’è. Evidentemente, i dati statistici risultano meno convincenti delle frasi choc rimbalzate su giornali, televisione e web. Qualche scienziato ha provato ad alzare la voce.

È IL CASO DELL’INFETTIVOLOGO Roberto Burioni del San Raffaele di Milano, già protagonista di un grottesco dibattito televisivo con Red Ronnie e Eleonora Brigliadori sullo stesso tema. Pochi giorni fa, nello smentire le farneticanti affermazioni dei neofascisti di Forza Nuova, che attribuiscono ai migranti la presunta epidemia, Burioni ha mostrato il pugno duro della scienza ai suoi centocinquantamila lettori su Facebook: «Qui ha diritto di parola solo chi ha studiato, e non il cittadino comune. La scienza non è democratica».

NONOSTANTE L’APPARENZA, lo sfogo di Burioni non ha nulla di ideologico. Il medico difende il metodo attraverso cui i ricercatori addivengono ad un consenso provvisorio sui fatti scientifici. Che non funziona per alzata di mano in cui «uno vale uno». Una teoria può prevalere anche contro l’opinione della maggioranza, a condizione di essere corredata da dati e previsioni empiriche riproducibili e falsificabili. Anche se questa concezione del progresso trascura i fattori sociali ed economici che lo influenzano, sul fatto che la scienza non sia una democrazia Burioni ha ragione.

Sbaglia, però, nel ritenere che gli scienziati non debbano porsi il problema del consenso. Come ha fatto notare Antonio Scalari sul blog collettivo Valigia Blu, un valoroso esperimento di giornalismo partecipativo, «la scienza non si comunica a suon di schiaffi (…) L’esposizione a una maggiore dose di informazione non solo può non bastare a mutare le opinioni del pubblico, ma talvolta può, al contrario, irrigidirle. Un fenomeno che è stato osservato proprio nel caso della comunicazione sui vaccini da parte delle istituzioni sanitarie». E cita il sociologo della scienza Andrea Cerroni: «Nella società della conoscenza, tanto ai non scienziati è richiesto di formarsi e informarsi su questioni scientifiche sempre più presenti nella vita quotidiana, quanto agli scienziati è richiesto di inserirsi nei processi di formazione del consenso nell’opinione pubblica».

LA SFIDUCIA nella scienza non nasce dalla mancanza di informazione, come dimostra anche la fauna al reparto vaccinazioni del San Giovanni. «È soprattutto la porzione più istruita e benestante della popolazione a rifiutare le vaccinazioni», spiega Andrea Grignolio, storico della medicina e autore di Chi ha paura dei vaccini? (Codice, 2016). Su questi temi lo avevamo intervistato pochi mesi fa, quando – sembra incredibile oggi – i ricercatori facevano fatica a convincere dell’opportunità dei vaccini. La causa? «Un sovraccarico informativo basato su nozioni false, contraddittorie e legate al rischio».
Sono parole utili anche ora che gli scienziati tentano di arginare l’assalto alle Asl. Loro stessi per primi avrebbero dovuto farne tesoro, poiché ne pagano direttamente le conseguenze: finché l’opinione pubblica nutrirà diffidenza nei loro confronti, la politica difficilmente si spenderà per sostenerli con risorse pubbliche adeguate.