«Aspettano di poter rientrare in patria e ogni giorno si arrovellano su come far cambiare rapidamente direzione a questo mondo per poter rimettere piede nel loro paese di origine e poi, chissà, un giorno, fare ritorno qui, su questa spiaggia di villeggiatura, da ospiti. Adesso sono persone in fuga attorniate da un mondo in vacanza». È un’Europa al bivio quella che si ritrova ad Ostenda, la località balneare belga sul Mare del Nord, nell’estate del 1936. C’è chi corre ancora spensierato sull’orlo dell’abisso che sta per inghiottire il mondo e chi è già in fuga. Chi osserva la linea incerta della costa dalle terrazze delle bianche magioni aristocratiche e chi condivide con marinai e bevitori di lungo corso la penombra dei bar che aprono fin dal mattino. Ostenda è un «porto delle nebbie», come il resto delle Fiandre «malate» che canterà poi Jacques Brel, dove le armate naziste penetreranno in seguito senza trovare quasi alcuna resistenza, ma è anche lo scenario per l’ultimo sprazzo di sole prima della tempesta, per un ultimo istante all’insegna della felicità e dell’amore prima che la guerra e la morte abbiano ragione di ogni cosa.

L’estate dell’amicizia di Volker Weidermann (Neri Pozza, pp. 160, euro 15) fotografa tutto questo attraverso l’amicizia tra Stefan Zweig e Joseph Roth e il gruppo di intellettuali, artisti, viveur – dagli scrittori Arthur Koestler e Hermann Kesten al predicatore Egon Erwin Kisch, fino alla «regina dello champagne» Irmgard Keun – che si riuniranno intorno a loro per quell’ultima indimenticabile stagione. Se il viennese Zweig e l’ebreo galiziano Roth celebrano con il loro fortissimo legame, spirituale ed umano ancor prima che intellettuale, una sorta di paradossale resistenza della Mitteleuropa «meticcia» all’emergere del nuovo imperialismo nazista «del sangue e del suolo», la comunità di «dileggiatori, combattenti, cinici, amanti, sportivi, bevitori, oratori e narratori» che si ritrova accanto ai due, fa di Ostenda una capitale dell’esilio: vi si rifugiano tutti coloro per cui non c’è più posto in Europa.
Già responsabile della pagine culturali della Frankfurter Allgemeine Zeitung, passato di recente allo Spiegel, autore di saggi e racconti, Weidermann è stato tra gli ospiti del Salone del Libro di Torino, che vedeva la Germania come ospite d’onore, dove ha presentato questo romanzo che oltre ad aver il timbro del reportage, sembra nutrire una forte nostalgia per quelle linee di faglia della storia in cui la letteratura tentava ancora di offrire una risposta all’incombente crisi dell’Europa.

Ostenda o del mondo perduto? Si è nel giusto nel leggere in «L’estate dell’amicizia» un sentimento di nostalgia per quella parte, forse la più importante, della cultura europea che il nazismo e la guerra hanno spazzato via per sempre?

volker

Sì, certamente è una delle emozioni e dei pensieri che più mi hanno accompagnato sia quando ho avuto l’idea del libro che quando ho cominciato a scriverlo. Anche perché si tratta della nostalgia per qualcosa che si è perso definitivamente, pensiamo a quanta parte della cultura tedesca, quella che era rappresentata dagli autori ebrei, che i nazisti hanno cercato di cancellare dalla storia. E c’è poi un’altra considerazione che mi premeva condividere con i lettori: vale a dire la nostalgia per il significato che la letteratura aveva in quel momento, in quella fase storica e la consapevolezza che avevano gli autori dell’epoca quanto al loro ruolo. Erano infatti consapevoli che anche, e forse soprattutto, facendo arte e letteratura si potesse contribuire a cambiare il mondo. Qualcosa che in seguito, e soprattutto in una fase di crisi come quella attuale, credo ci manchi moltissimo.

L’altro elemento centrale del romanzo sembra essere la nascita di una comunità di scrittori tedeschi dell’esilio, cementata intorno all’amicizia tra Roth e Zweig, i cui libri erano stati messi al bando dai nazisti. È così?

Questa è l’altra pista che volevo approfondire. Da un lato quella di un’amicizia che per forza e intensità si potrebbe quasi definire come una storia d’amore – Zweig e Roth non potevano essere più diversi per ceto, origine, temperamento e perfino per la diversa lucidità con cui seppero scorgere il pericolo imminente rappresentato dal nazismo, Roth se ne accorse molto prima e tentò di farlo capire a Zweig -, dall’altro il fatto che la piccola comunità di Ostenda che si era riunita intorno a loro avrebbe fatto del proprio esilio una forma di resistenza e di lotta ad Hitler. Il loro modo di combattere era quello di continuare a scrivere e di farlo in tedesco malgrado i nazisti avessero bruciato per strada i loro libri o li avessero messi al bando.

Quanto ha pesato l’esilio di quegli anni nella letteratura di lingua tedesca, si tratta di una ferita che si è rimarginata dopo la sconfitta del nazismo e la fine della guerra?

Negli anni Trenta e Quaranta quella di lingua tedesca era sostanzialmente una letteratura dell’esilio; i più importanti scrittori tedeschi ed austriaci dell’epoca avevano scelto od erano stati costretti a lasciare il loro paese. Alcuni sarebbero morti all’estero, altri avrebbero comunque scelto di non tornare più anche dopo la fine del conflitto e il ritorno della democrazia. Altri ancora, e penso soprattutto a Klaus Mann o Alfred Döblin, decisero invece di tornare dopo il 1945 perché coltivavano grandi aspettative quanto alla possibilità di contribuire alla costruzione di una nuova Germania. Le loro speranze sarebbero però state deluse. Così, sia Mann che Döblin se ne sarebbero andati nuovamente, entrambi in Francia, ma questa volta scegliendo di auto-esiliarsi.

Il rapporto tra letteratura e esilio sembra riemergere nella Germania di oggi grazie agli autori figli dell’emigrazione: l’«Exilliteratur» alla Roth oggi si scrive in patria?

Per certi versi è così, visto che molti dei protagonisti della nuova letteratura di lingua tedesca sono effettivamente figli di un’emigrazione recente o più sedimentata nel tempo, o appartengono a minoranze che hanno conosciuto diverse forme di esilio. Penso a Feridun Zaimoglu che è di origine turca o a Katja Petrowskaja che viene dall’Ucraina, oltre al Premio Nobel Herta Müller che appartiene alla comunità di lingua tedesca della Romania. Questi sono solo i nomi più noti, ma una buona parte, forse la più vivace e produttiva, della nuova narrativa tedesca è frutto del lavoro di autori che vivono una qualche condizione di esilio. E, cosa forse ancor più interessante, si tratta spesso di scrittori e scrittrici che non sono di madrelingua tedesca.

Eppure, mentre la Germania torna a fare paura all’Europa per la linea di austerità imposta da Merkel, nelle piazze come nel dibattito culturale del paese cresce una nuova destra che parla di «leitkultur» (la cultura guida) da imporre agli immigrati o attacca l’islam come nel bestseller di Thilo Sarazzin. È preoccupato?

In realtà credo che la crisi economica sia il contesto in cui crescono tutti questi fenomeni. Sia quelli che considero come i luoghi comuni sui tedeschi cattivi che vogliono dettare legge in Europa, sia le tendenze nazionaliste o xenofobe che stanno emergendo con forza in Germania come in molti altri paesi. Proprio la crisi sociale e le difficoltà economiche riportano in auge atteggiamenti di diffidenza e di chiusura verso ciò che ci appare lontano o minaccioso. È un clima di incertezza che sembra fatto apposta per favorire il consolidarsi di stereotipi che magari erano già presenti, sebbene in settori ridotti della cittadinanza, mentre ora rischiano invece di acquisire un preoccupante profilo di massa.