A parlare davanti a un uditorio di studenti di una scuola di moda si ha sempre il timore di essere sorpassati in spregiudicatezza dall’uditorio. Invece bastano poche domande per capire che tra i giovani che le frequentano il timore maggiore è quello di allontanarsi dal senso comune, dall’idea accettabile, dalla routine creativa che propone prodotti già digeriti dai mercati, ultimi giudici di qualsiasi proposta. È lo stato della moda attuale: dovrebbe essere pronta a rompere gli schemi proprio perché per sua natura è contraria a un passato che torna con i suoi incubi – nazionalismi, populismi, razzismi, intolleranze culturali – ma si blocca sulla soglia del timore che attanaglia i giovani di scostarsi dalle finte sicurezze che, mentre li strangola nella culla, il sistema attuale continua a proporre come unica realtà possibile. «Come si fa a proporre il nuovo se poi il mercato non accetta la proposta?». «Chi potrà mai produrre la mia linea se non corrisponde alle regole del marketing che governa creatività e mercato?». Preoccupazioni reali che ne sottendono una più grave e più taciuta: «Come farò a diventare famoso se non vado a lavorare in uno dei marchi storici che governano l’immaginario e il mercato?».

Si potrebbe rispondere che non è necessario diventare famosi se si disegnano dei vestiti, ma sarebbe troppo. La storia della moda, però, potrebbe dare degli esempi di rotture traumatiche del sistema, episodi di anarchia che appaiono insospettabili perché oggi sono simboli dell’establishment che servono a capire perché nella moda i grandi cambiamenti sono sempre nati dalla rottura traumatica di uno schema sicuro. Nel 1902 Charles Frederich Worth, l’inventore della Haute Couture, licenziò in tronco il sarto Paul Poiret che lavorava per lui perché la principessa russa Olga Bariantinsky, che era a Parigi per rinnovare il guardaroba, svenne urlando «Orrore!» quando il giovane sarto le fece provare un cappotto senza il regolare bustier interno che, secondo lui, rendeva innaturale il portamento femminile. Convinto di essere nel giusto, Poiret poteva salvarsi chiedendo scusa, ma uscì dall’atelier del suo maestro e indebitandosi fondò la sua Maison. È passato alla storia come il sarto che ha liberato le donne dai bustini. Nel 1916, una giovane avventuriera che cercava la sua fortuna fece scandalo sulla spiaggia di Biarritz perché era vestita con i pantaloni maschili. Quattro anni dopo, la stessa ragazza era a Parigi per presentare un’intera collezione di tailleur di jersey e fu accusata di volere vestire le donne come le segretarie. Andando contro tutto e contro tutti, quella giovane donna è diventata Coco Chanel. Nel 1947, un tale Christian Dior ha pensato che l’unico modo per farsi accettare come sarto era proporre una moda che non c’era.

E ha inventato il New Look. Oggi ci appare un’intuizione meravigliosa, visto che è ancora copiato, ma all’epoca il suo autore ha dovuto sopportare anche gli insulti di chi l’accusava di consumare 15 metri di stoffa per la gonna a ruota e 25 metri di raso di seta per i suoi abiti da sera. Per non parlare delle accuse dei mariti contrari alla «licenziosità dei giacchini corti che scoprono i fianchi». A proposito di finanziamenti, invece, basti pensare che Yves Saint Laurent e Pierre Bergé non avevano neanche un franco in tasca quando hanno deciso di fondare il loro marchio. Il primo era chiuso in ospedale con un esaurimento nervoso di ritorno dalla guerra in Algeria e il secondo si è fatto prestare i soldi da un americano. Li davano per spacciati, ma contro ogni previsione sono ancora oggi due miti della moda.

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