Da sempre percepita solo come il centro assolato della vapidità hollywoodiana, Los Angeles vanta oggi una delle più vibranti scene artistiche del panorama internazionale. Dopo l’apertura del nuovo Broad Museum, e l’ambizioso progetto di ampliamento e ristrutturazione del LACMA firmato dall’architetto svizzero Peter Zumthor, anche le grandi gallerie newyorkesi hanno infine compreso il potenziale artistico (e commerciale) della megalopoli californiana. Ne è un esempio la prestigiosa galleria Hauser & Wirth che, poco meno di un anno fa, ha inaugurato un enorme spazio polifunzionale nella popolare zona dell’Art District. Completa di ristorante, libreria e spazi pubblici all’aperto, la galleria – ribattezzata Hauser Wirth & Schimmel – sembra decisa a competere con la programmazione dei principali musei cittadini. Dopo una straordinaria mostra sul rapporto tra astrazione e scultura femminile nel Novecento, la galleria ospita infatti fino alla fine di dicembre la retrospettiva Maria Lassnig. A Painting Survey 1950-2007, dedicata all’artista austriaca che, nel 2013, un anno prima della sua morte avvenuta all’età di novantaquattro anni, ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera della Biennale veneziana.

Per oltre settant’anni, Maria Lassnig ha fatto del proprio corpo, salvo rare ma significative eccezioni, il soggetto ossessivo e dominante della propria pittura; un corpo rappresentato non tanto nella sua tangibile realtà ma come sensazione astratta, sfuggente, come fascio di zone d’intensità, per impiegarare la terminologia di Gilles Deleuze. Il riferimento al filosofo francese, interprete finissimo del sensismo spinoziano, radicato nella capacità senziente del corpo, non è casuale. Quella di Lassnig è infatti una pittura che cerca esattamente di trasporre sulla tela la «consapevolezza del corpo» (Körperbewusstseins), un’espressione coniata dalla pittrice nel 1948 per descrivere il suo metodo pittorico. Lassnig dipinge se stessa come guardandosi dall’interno, attenta alle sensazioni del proprio corpo. Tutto quello che l’artista non percepisce di sé mentre sta dipingendo viene escluso dalla rappresentazione, poco importa che si tratti di un orecchio, della schiena, o dei capelli. L’obiettivo di Lassnig, come ha scritto nei suoi diari, è «superare la sicurezza del reale, per accedere a territori non mappati».

Nata a Klagenfurt, la cittadina della Carinzia descritta con sguardo impietoso da Ingeborg Bachmann, è negli anni cinquanta che Lassnig entra in contatto per la prima volta con l’espressionismo astratto americano di De Kooning e Pollock durante un periodo di studio a Parigi. La mostra losangelina documenta questa fase della sua carriera attraverso otto piccole tele, dominate dall’uso del nero, un colore pressocché assente dalla ricchissima tavolozza della sua opera successiva. Si tratta di opere che oscillano ancora tra la tensione all’astrazione, la gestualità segnica e l’inquietudine compositiva dell’informale, documenti di una ricerca che solo a partire dal decennio successivo sembra trovare un originale punto d’accesso a quel «corpo-casa» (Körpergehäuse) al centro dei grandi cicli pittorici successivi. Quest’ultimo concetto-chiave per comprendere l’estetica della pittrice austriaca contiene in sé l’associazione problematica di corpo femminile e spazio domestico, al centro dell’interesse di altre importanti artiste della sua generazione come Louise Bourgeois, autrice della celebre serie di dipinti Femme Maison (1946-’47).

È nelle grandi tele dei primi anni sessanta, come Rot-blaue Figuration (Figurazione rosso-blu, 1961), che Lassnig, attraverso una pennellata a prima vista solo energicamente gestuale, inizia a trasformare la tela stessa in una superficie d’intensità corporea, in uno spazio anche pittorico in cui dimorare fisicamente ed emotivamente: molte fotografie dell’epoca la mostrano sdraiata, intenta a dipingere sulla tela posata a terra. Lasciate alle spalle le zone dell’informale puro, Lassnig sceglie di minare alle fondamenta i principi compositivi tradizionali, disintegrando i confini tra soggetto e sfondo. Il bianco che lascia al centro delle figure appena delineate da larghe pennellate materiche, è infatti lo stesso che le circonda e definisce osmoticamente. In altre opere come Hasenbild (Figura-coniglio, 1962) inizia poi a emergere la violenza metamorfica del corpo in costante divenire rappresentato nelle successive opere dell’artista, che a dispetto della precisione sviante dei suoi titoli, non fa che rappresentare se stessa, come oggetto, animale, mostro o semplice elemento naturale. Di questa fase la mostra presenta alcuni piccoli capolavori come Selbstporträt as Tier (Autoritratto come animale, 1963) o Balancing myself (Tenendomi in equilibro, 1965), in cui la carnalità intrinseca del soggetto rappresentato, sempre come dolorosamente sottoposto a una forza d’immane torsione, è enfatizzata da una magistrale capacità d’orchestrare sulla tela la tragica banalità fisica dei toni del porpora e del rosa.

In questa fase della ricerca di Lassnig, particolarmente importante per pittrici più giovani quali Dana Schutz e Nicole Eisenman, quando il corpo si cancella, quando la deformazione è il mezzo di comunicazione della corporalità, si può star certi che si è entrati in un altro regime, in quelle zone dove, scrive Deleuze, «si operano divenir-animali e divenir-molecolari sotterranei, de-territorializzazioni notturne che oltrepassano i limiti del sistema significante». L’autoritratto è infatti una forma di gesto radicale che problematizza la nozione di sé non solo come soggetto individuale, ma come donna e artista sottoposta alle pressioni di una società violentemente patriarcale.

Dopo il trasferimento a New York nel 1968, proprio l’ostilità nei confronti del suo astrattismo tragicamente sessuato da parte del mondo artistico americano, all’epoca polarizzato tra Pop e Minimalismo, provoca una brusca svolta figurativa nell’opera di Lassnig. Quello degli algidi autoritratti degli anni settanta è un realismo vissuto – scrive nei suoi diari – come «uno stato di emergenza», il tentativo di dimostrare il proprio talento. L’ampia tela del 1972 intitolata Dreifaches Selbstporträt / New Self (Triplo autoritratto / Nuovo sé) è un’opera paradigmatica di questo periodo che – attraverso la triplicazione del soggetto, mostrato in piedi, in ginocchio e come oscillante al centro del dipinto – incarna l’inquietudine del realismo dell’artista, certo assai più problematico di quello dell’americana Alice Neel, cui spesso viene paragonata.

Tale problematicità si comprende bene nelle opere dei decenni successivi, rappresentate nella mostra losangelina da importanti tele di grandi dimensioni, l’ultima risalente al 2007. Si tratta di lavori che non solo documentano una crescente sapienza cromatica, davvero sublime in opere come Grosse Flächenteilung / Spiegel (Grande campo-divisione / Specchio, 1989), ma anche un’originalissima capacità di negoziazione concettuale tra le istante dell’astratto e del figurativo. Il corpo appare in queste opere come concetto limite perché di fatto metafora della stessa possibilità di comunicazione soggettiva. Incredibile, da questo punto di vista, è Sprachgitter (Linguaggio rete, 1999), ritratto meravigliosamente dolente di un soggetto tanto alieno quanto alienato, sorretto solo da una reticolare materia pittorica: la sua unica possibilità di espressione