Dieci anni. Dieci anni anni esatti ma poco o nulla da festeggiare. Anzi.

I fatti: era il primo gennaio del 2006 quando Rick Falkvinge, allora trentatreenne, aggiornò la sua pagina Web, annunciando la nascita del partito pirata svedese.

A voler essere precisi, qualcosa di simile c’era già in altri paesi – Italia compresa – ma si trattava quasi esclusivamente di mailing-list, con partecipanti che si contavano sulla dita delle mani. Piccole aree discussione telematiche, tutto qui. Non che l’annuncio sul blog del giovane di Goteborg sembrasse essere molto di più. Nessuno conosceva Rick Falkvinge e quei pochi appassionati di libertà digitali che lo conoscevano lo tenevano alla larga. Lui, infatti, dopo un passato nei giovani moderati – si chiamano proprio così: Moderata Ungdomsförbundet -, un’organizzazione dichiaratamente di destra, era passato alle dipendenze della Microsoft. Da lì se n’era andato, restando comunque in buoni rapporti con la multinazionale, creando la sua start-up (sì, start-up; in dieci anni, strano a dirsi, il linguaggio degli «innovatori» non è cambiato).

L’aggiornamento della pagina di Rick Falkvinge il primo dell’anno sembrava una boutade, insomma. O giù di lì. L’ormai ex ragazzo di Goteborg invece ci aveva visto giusto.

Perché due anni prima, in Svezia, era nata The Pirate Bay, il più grande sito dove si potevano scambiare file. Quella che è stata la più grande sfida alle corporazioni del copyright – e di fatto oggi quasi oscurata da migliaia di querelle giudiziarie – era già diventato un caso nel paese scandinavo. Al punto che a Stoccolma c’era stata la prima manifestazione di massa contro la censura che si nasconde dietro la difesa del «diritto d’autore».

In questo clima, l’annuncio di Falkvinge ebbe un effetto travolgente. Era nato il partito pirata svedese, che avrebbe fatto da apripista al movimento internazionale. Il successo non fu immediato, alle prime politiche non superò il quorum, ma di lì a tre anni, ci fu il boom. Nel 2009, nel pieno del processo contro Pirate Bay – dove sul banco degli imputati era finito quello che i fondatori consideravano il diritto di tutti a condividere cultura e saperi -, il partito di Falkvinge superò il sette per cento.

Programma indistinto – difesa delle libertà digitali ma anche valorizzazione del ruolo delle imprese -, linguaggio giovanile, slogan anti-casta ante litteram, accento sulla partecipazione: sono state queste le chiavi del successo. Che di lì a poco, avrebbe contagiato la Germania, con l’arrivo di decine di deputati a Berlino e in tutti i Land, successi progressivamente svaniti. E poi l’Islanda, dove comunque i pirati hanno una più forte connotazione «sociale», già governano coi socialisti e la sinistra il comune di Reykjavík e dove i sondaggi li danno addirittura come primo partito. E poi via via gli altri paesi. Superando le barriere dell’Europa, provando ad approdare addirittura nel Maghreb e al di là dell’Oceano.

Dieci anni, vissuti intensamente allora. E Rick Falkvinge? Il fondatore di tutto?

L’ex ragazzo moderato, l’ex manager, in questi anni s’è ritagliato per sé un ruolo diverso. Meno legato alle battaglie politiche quotidiane, più distaccato. Una sorta di ideologo. Ha cominciato a girare nel vecchio continente, spiegando le ragioni dei pirati. Ha scritto un libro, «Manuale tattico per cambiare il mondo». Che si basa sulla teoria dello «sciame». Contiene – va detto – elementi di critica all’autoritarismo dei partiti tradizionali e dell’organizzazione sociale, ma in buona sostanza è un pamphlet su come organizzare la propaganda. Basato sull’idea – non proprio sofisticata – che le buone ragioni della gente se diventano un’ondata, uno «sciame», alla fine vincono.

Il libro – per chi l’ha letto nella versione curata dal partito pirata italiano – contiene anche critiche molto naif ad Anonymous e a Occupy Wall Street. In ogni caso, però, ha accresciuto il suo ruolo di leader nel movimento.

Il tutto fino ad oggi. Fino al decennale. Quando poco prima di natale Rick Falkvinge ha pubblicato l’ennesimo saggio sul sito torrentfreak. E qui forse il cerchio si chiude definitivamente. Perché il guru scrive su un argomento popolare (la lotta agli abusi del copyright) provando a dare dignità culturale ai suoi ragionamenti.

Ma in qualche modo si svela. E dice che l’unica legge che conta è quella del mercato. E che le pretese delle major di farsi pagare diritti su ogni prodotto è sbagliata, perché fuori da quella logica. «La regola è una e una sola: se non sei in grado o non sei disposto a trovare una controparte con la quale effettuare uno scambio a condizioni stabilite di comune accordo non hai diritto a nulla». Non puoi pretendere nulla.

Quindi gli Stati che intervengono a difesa del copyright cercano solo di stabilire «un valore di beni e servizi al di fuori del mercato». Ragionamento tortuoso nascosto dietro parole d’ordine altisonanti, che lo porta a negare qualsiasi intervento pubblico. Magari anche solo per superare il digital divide. Esattamente – per chi la ricorda – come la campagna per le primarie repubblicane, negli States, una decina di anni fa, di Newt Gingrich, l’ultrà liberista, difensore della «non ingerenza degli Stati nella rete», finito poi a combattere l’aborto. E con Falkvinge non siamo poi molto lontani.

Al punto che il suo scritto si conclude con un’ammonizione: il mercato, il libero mercato senza condizionamenti è la chiave della libertà. Qualsiasi ingerenza pubblica significa tornare al comunismo. E alle sue tragedie.

Ecco perché il cerchio si chiude. Si torna a Falkvinge ragazzo, alla sua militanza fra i giovani della destra svedese. Se ne devono essere accorti in tanti.

Al punto che i giovani pirati tunisini, in questi giorni, in vista della loro prima prova elettorale hanno scelto di cambiare logo e nome: anziché il veliero nero con la «P» hanno scelto simbolicamente una foglia di marijuana. Vogliono diritti. Non mercato.