L’atteggiamento della Corte costituzionale – che prima rompe le righe fissando la data di discussione dell’Italicum in anticipo sul referendum costituzionale e poi, per evitare di mettersi contro il governo, rientra nei ranghi rinviando l’udienza al 2017 – non è il profilo più sorprendente della vicenda. Ancora più sorprendenti risultano i commenti dei sostenitori del Sì. Valgano per tutti le parole di Stefano Ceccanti riportate dai quotidiani di ieri: «È ragionevole (…) che l’organo di garanzia voglia prendere una decisione nei tempi e nei modi tali da non essere interpretato come organo politico. (…) La Consulta ha visto il pericolo di essere intesa non come organo di garanzia, ma come una specie di terza camera. Il pericolo, in particolare, consisteva nel fatto che qualunque decisione avesse preso, sarebbe stata accusata di essere di fatto a favore del Sì oppure del No, e quindi a favore oppure contro il governo».

Il giudizio di costituzionalità – detto altrimenti – deve mantenersi sul piano del «giuridico», senza sconfinare nel territorio del «politico», a pena di alterare il ruolo stesso della Corte, che da organo di garanzia diverrebbe organo di parte. Perfetto. Perché, allora, sostenere una riforma che ha introdotto non una, ma ben due nuove discipline che trascinano la Consulta in una situazione esattamente identica a quella che ora si saluta come uno scampato pericolo? Quale coerenza induce a rifuggire oggi una situazione che si vuole riproporre domani?
Il riferimento va al nuovo articolo 73, comma 2, che espressamente prevede il controllo anticipato di costituzionalità sulle leggi elettorali, e al nuovo articolo 70, comma 6, che tacitamente introduce analogo controllo sulla scelta della procedura legislativa da seguire in caso di disaccordo tra i presidenti delle due camere.

La prima disposizione sancisce che le leggi elettorali di camera e senato, dopo l’approvazione parlamentare ma prima della promulgazione e pubblicazione (e dunque prima dell’entrata in vigore), potranno essere sottoposte a «giudizio preventivo di legittimità costituzionale» innanzi al giudice delle leggi su richiesta di un quarto dei deputati o di un terzo dei senatori. Il ricorso dovrà intervenire entro dieci giorni dall’approvazione e la Corte costituzionale avrà poi trenta giorni di tempo per decidere, periodo durante il quale la promulgazione resta «sospesa». Solo in caso di rigetto del ricorso, il presidente della Repubblica potrà poi procedere alla promulgazione, mentre, in caso di accoglimento, la legge non potrà completare il proprio iter e, di conseguenza, non entrerà in vigore.

Molti dubbi sono stati sollevati con riferimento a questa nuova competenza della Consulta. Qui ci si può limitare a ricordarne due. Il primo riguarda la difficile definizione tecnica del rapporto che intercorrerà tra giudizio preventivo e giudizio successivo a cui, secondo l’immutato articolo 134 della Costituzione, le leggi elettorali continueranno a poter essere sottoposte. Davvero la Corte prenderà in considerazione la possibilità di «sconfessare» se stessa? La domanda è cruciale, perché solo in caso di risposta affermativa il giudizio successivo davvero avrà ancora ragione di essere. Il secondo dubbio, che ci trascina direttamente nella polemica odierna, può essere riassunto nella seguente domanda: davvero la Corte avrà la forza di intervenire facendo valere le ragioni della Costituzione in una decisione tanto politicamente delicata quanto lo è la scelta della legge elettorale? Il rinvio di ieri lascia intravedere quante e quali saranno le difficoltà del caso.

Quanto alla seconda disposizione che rischia di fare della Consulta un attore della polemica politica, viene in evidenza la nuova complicatissima disciplina dell’attività legislativa parlamentare. Anziché un solo modo di fare le leggi, com’è oggi, con la riforma avremmo una decina di procedimenti che differiscono a seconda della materia che dovrà essere regolata. Così, per esempio, se si intende fare una legge sull’ordinamento degli enti locali il procedimento resta perfettamente bicamerale, mentre se si vuole disciplinare il trasporto pubblico locale occorrerà una legge a prevalenza camerale, con possibile intervento del senato entro trenta giorni a maggioranza semplice (a seconda della materia, i termini e le maggioranze cambiano). E se in una stessa legge sono contenuti entrambi i profili? Quale procedimento dovrà essere seguito? Il caso non è «di scuola», al contrario: l’esperienza insegna che la maggior parte delle leggi prodotte nel nostro paese si collocano a cavallo di più materie. In questi casi, dice la nuova Costituzione, decideranno di comune accordo i presidenti delle due camere. Ma, se non riescono ad accordarsi? La questione non potrà che essere rimessa alla Corte costituzionale, alla quale verrà così richiesto di risolvere un conflitto politico addirittura prima che la legge sia stata approvata. Il rinvio di ieri lascia intuire le pressioni che si scaricheranno sui giudici della Corte, senza che il precedente lasci ben sperare sulla loro capacità di farvi argine.

In definitiva: proprio la difesa della giuridicità dei giudizi della Corte costituzionale, che oggi i sostenitori del Sì agitano a difesa del denegato giudizio sull’Italicum, vale come eccellente argomento a favore del No alla revisione costituzionale. Le contraddizioni di questo abborracciato intervento sono tante e tali che nemmeno i suoi fautori possono sfuggirvi.