Aveva detto di lui Benedetto Croce, in una delle sue più celebri stroncature, che un ingegno così prosaico era incapace sia di illuminare l’intelletto sia di far battere il cuore. Croce si riferiva ovviamente all’occhio vitreo che sorveglia la macchina de I Viceré sottacendo le parti che in quel grande congegno polifonico trascendono la prosa esatta o glaciale del naturalismo e omettendo oltretutto di citare le zone di inventiva più sbrigliata che segnano, quando non intaccano, la più vasta e diseguale produzione di Federico De Roberto, a cominciare da un romanzo, una crime story travestita da love story o viceversa, dal titolo emblematico, Spasimo, del 1896. Infatti De Roberto, per paradosso speculare, fu un uomo non soltanto afflitto in vita sua dagli insuccessi commerciali e da una ambigua ricezione critica, ma anche un individuo di carattere emotivo, insicuro, sentimentalmente irrisolto, soggetto a disturbi neurovegetativi e psicosomatici fino alla morte sopraggiunta per trauma da svenimento, nel luglio del ’27, quando aveva appena sessantasei anni e da tempo era tornato a Catania, per sempre disilluso e scettico, contentandosi di scritture laterali ed erudite da cui comunque fuoruscivano, a sbalzo o per soprassalto di un’arte sovrana, schegge di assoluta perfezione quali per esempio la novella La paura, oggi celebrata come un capolavoro e, sia pure firmata da un mite patriota, come un potenziale manifesto di antimilitarismo.

Fatto sta che fino all’ultimo, e durava dai suoi dieci anni, quel genio del romanzo italiano aveva avuto l’esistenza ipotecata, di fatto coartata e massacrata, da Marianna Asmundo sua madre, precocemente vedova di Federico senior, nobildonna dal fisico minuto ma di indole tanto imperiosa e possessiva da imporre a Federico junior una tutela che costui riceveva insieme con i sintomi – sono parole sue – di una vera e propria isteria al maschile. Dunque gli anni di apprendistato a Milano, fra il 1888 e il ’97, culminati nell’amicizia con Luigi Albertini e la collaborazione al Corriere della sera, non erano stati solo un tentativo di accreditamento letterario e professionale, sollecitato dai trascorsi dei maestri veristi (e su tutti, a lui sempre carissimo, da Giovanni Verga), ma anche la fuga dal giogo materno e nel frattempo la ricerca di una propria individuazione affettiva e sentimentale. La quale, breve e bruciante, con un lungo strascico di nostalgia e rimpianto, avvenne nell’imminenza del ritorno a Catania e coinvolse una donna incontrata nel salotto di Casa Borromeo, Ernesta Valle, sposata all’avvocato messinese Guido Ribera, dallo scrittore immediatamente detta, con nom de plume, «Renata» a contrassegno di una rinascita carnale e spirituale.

Per lo più postumo a un amore che dovette essere spontaneo, reciproco e squassante, è il carteggio ora contenuto in un volume ponderoso, «Si dubita sempre delle cose più belle» Parole d’amore e di letteratura (a cura di Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla, Bompiani, «Saggi», pp. 2.132, euro 35.00). Residuato fra le carte derobertiane custodite alla Biblioteca Universitaria di Catania, l’epistolario si compone precisamente di 764 pezzi (relativamente più numerosi, circa di un terzo, quelli a firma di Ernesta Valle) che i curatori annotano con sobria puntualità senza mai prevaricare un continuum epistolare che, per essere colto nel profondo, va percorso al ritmo di una emotività, tipica dei colpi di fulmine, a tratti persino ossessiva. Dolce, ricettiva, accogliente è «Renata» (lettrice e ammiratrice di lui già prima dell’innamoramento) tanto da essere una sponda ovvero una sparring ideale, quanto è invece esuberante e incalzante Federico che per solito usa la lettera come un diario di bordo associando le espressioni proprie di un innamorato (nel qual caso ardente e volentieri ardito, insinuante) a notizie su incontri, occasioni di lavoro, problemi economici o familiari e specialmente letture e scritture.

Redatto grosso modo fra il 1897 e il 1903 con appendici cadenzate fino al 1916, si tratta di un privatissimo journal come è ben detto nella introduzione: «Maniacale la pedanteria con cui De Roberto informa l’amante di tutto, fin nei minimi dettagli, quasi un ‘diario di bordo’, gremito di reiterate indicazioni temporali care a un’ossessiva liturgia delle ricorrenze. Ulteriore conferma dello scrupolo ossessivo del documento, dell’indagine minuziosa, delle ricerche d’archivio, dell’analisi spietata che ne sorreggono gli scritti». In effetti «Si dubita sempre delle cose più belle» è una miniera a cielo aperto, una autobiografia di De Roberto attraverso le lettere fissata in un frangente decisivo, ma il volume è prova ulteriore della qualità filologica e critica di quanti, nelle università siciliane, attendono da tempo agli studi sullo scrittore catanese e ne propiziano una ricezione integralmente rinnovata oltre l’interdetto di Croce e gli apporti benemeriti, davvero pionieristici, di Luigi Baldacci, Vittorio Spinazzola, Mario Lavagetto e Carlo A. Madrignani: e qui vanno menzionati, oltre a Sarah Zappulla Muscarà, ottima editrice del carteggio, senz’altro Nunzio Zago, Natale Tedesco, Paolo M. Sipala, Giuseppe Traina e quell’Antonio Di Grado che, con La vita, le carte, i turbamenti di Federico De Roberto gentiluomo (Bonanno 2007), ci ha dato di recente la piccola bibbia dei lettori derobertiani.

Quanto all’importanza del carteggio, basterebbe menzionare la lettera del 3 giugno 1902 dove lo scrittore si profonde sulla redazione del romanzo che avrebbe dovuto chiudere la trilogia inaugurata da L’illusione nel 1891, proseguita tre anni dopo dalla pubblicazione de I Viceré, l’epopea della famiglia Uzeda di Francalanza, campioni di trasformismo, la cui conclusione avrebbe dovuto essere appunto L’Imperio (romanzo parlamentare sull’ultimo degli Uzeda, il deputato Consalvo, dall’autore definito un libro «terribile»), un testo concepito nel 1893-’95, rifocillato di appunti e scene dal vero catturate nel soggiorno a Roma fra il 1908 e il ’13, mai portato a stesura definitiva e infatti uscito postumo solo nel 1929. È scritto in quella lettera: «Ho preso pure il vecchio manoscritto del romanzo che doveva far seguito ai Viceré. (…) Faccio questo tentativo di ritorno all’arte senza fede e senza neppure altra speranza che quella di ricavare, chi sa quando, un migliaio di lire dal lavoro di chi sa quanto tempo. E questa è la mia vita, propriamente degna d’essere strozzata con tutt’e due le mani, se non fosse il ricordo, la visione, il pensiero e la speranza di Nuccia».

Ma «Nuccia», cioè la dolce Ernesta e cioè «Renata», è già lontana e prossima a uscire gradualmente dalla sua vita. A lui resta la solitudine di Catania, l’astenia e i disturbi su cui è tornata a invigilare la dittatura edipica di sua madre Marianna, perché gli ultimi anni di Federico De Roberto sono quelli di un deserto sentimentale su cui non possono più nulla né i ricordi né il nostalgico rimpianto di un amore che fu grande e però impossibile: un ex fascista che si era laureato con una tesi su di lui, Vitaliano Brancati, se lo ricorderà molti anni dopo come un uomo perpetuamente solo, a spasso per via Etnea con un’aria di cortese indifferenza, la caramella all’occhio destro, chiuso dentro la sua «pesante armatura di onestà», la stessa che Benedetto Croce aveva purtroppo scambiato per una sua inguaribile, atavica, aridità sentimentale.