«Il Diavolo fa il bagno nella malinconia», diceva il teologo alessandrino Origene agli inizi del III secolo. «L’inferno ha influenza su di noi, non tanto attraverso la voluttà, ma grazie soprattutto allo sconforto malinconico»; «I neri fumi dell’atrabile sono un piacevole soggiorno per il Maligno. Vi si insinua e vi si nasconde, senza che noi possiamo opporre resistenza. Nerezza per nerezza, l’incognito è preservato», commenta Jean Starobinski, uno dei più grandi critici letterari del XX secolo.
Superati i novant’anni d’età, dimostrando quanto avesse ragione Boccaccio quando sosteneva, nella Conclusione del Decameron, che si scrive soprattutto «per cacciar la malinconia», Starobinski raccoglie in un libro armonioso e raffinatissimo, L’inchiostro della malinconia (traduzione di Mario Marchetti, Postfazione di Fernando Vidal, Einaudi, pp. 563, euro 36,00) le tante riflessioni svolte in più di mezzo secolo di meditazione su quello che, come ha suggerito Yves Bonnefoy, è «forse l’elemento che più specificamente caratterizza le culture dell’Occidente».

Nera come l’Inferno e come l’inchiostro è la malinconia (il titolo deriva da un verso di Charles d’Orléans, da un’immagine di Francisco de Quevedo, da un’idea di Tommaso Campanella). Tinge l’anima e la carta, paralizza le emozioni e la parola. Il suo tempo verbale non è il presente, ma il passato; il suo modo non è l’indicativo, che fa i conti con il mondo, con quello che Eugène Minkowski in Le temps vécu definiva, nel 1933, «il contatto vitale con la realtà», ma il condizionale, che vorrebbe restituire potenzialità a ciò che è stato, e invece s’impaluda nell’immobilità del tempo esaurito.
Il malinconico pensa ossessivamente alla vita in termini di «se avessi» o «se non avessi» fatto questo o quello, fissandosi senza salvezza «su un passato che non può più modificare», come annotò acutamente il grande psichiatra Ludwig Binswanger, ricordato da Starobinski. Non a caso i suoi studi «fenomenologici» su Melancholie und Manie condividono di fatto i temi e la prospettiva analitica con le ricerche del malinconico più geniale del nostro tempo, Aby Warburg, il quale con Binswanger fu in terapia a Kreuzlingen: alla base dell’Atlante di Mnemosyne, altissima arte della memoria dell’era moderna, si ritrova proprio la dialettica fra «serena contemplazione» e «abbandono orgiastico», in un’altalena fra tendersi e rallentarsi del ritmo interno. La storia della rappresentazione artistica delle emozioni è anche una storia del diverso emergere o venire sublimata della potenza malinconica, che è lutto, negatività, allucinazione.
Per gli antichi l’atrabile che genera malinconia è un «carbone umorale», un osceno «catrame vischioso che brucia per lasciare un residuo ancora più scuro e più spesso: materia pesante che ottenebra lo spirito». La malinconia è densa, nera, velenosa come l’elleboro che i medici antichi somministravano ai «malati» per curare il tossico con il tossico, secondo il principio che Starobinski, in un magnifico saggio del 1989, definì le remède dans le mal. Scuro è il volto della Malinconia e nere sono le sue ali, nero è il sole, neri gli oggetti che la circondano, nella celebre incisione di Dürer del 1514 studiata da Raymond Klibansky, Erwin Panofsky e Fritz Saxl in uno dei libri, Saturno e la malinconia, del 1923, che rimane fondamentale sul tema, insieme con la grande ricerca di Rudolf e Margot Wittkower sul legame fra genio e malinconia negli artisti, Nati sotto Saturno, del 1963.
Collocandosi nel punto di snodo fra interno e esterno, fra pneuma e soma (o spiritus e corpus), la malinconia è dunque una malattia, e dovranno occuparsene i medici specialisti dei quattro umori: Starobinski è stato anche medico e storico della medicina, coniugando con rarissima finezza esperienze e saperi che solo un intellettuale del Rinascimento riuscì ad armonizzare. Galeno, maestro di tutti i medici dell’Antichità e del Medio Evo, la riconduceva a un eccesso della bile nera che circola nel corpo e ai «vapori» che generano le immagini fantastiche: «Come le tenebre ispirano paura a quasi tutti gli uomini, […]così il colore della bile nera, offuscando come il buio la sede dell’intelligenza, genera angoscia».

Accanto al medico interviene il filosofo, con la «consolazione» e l’«esortazione morale», a offrire una psicoterapia (ossia una therapéia della psiché, una «cura dell’anima»). «Il male che ci angoscia non è nei luoghi dove siamo, è in noi», intuì Seneca nel De tranquillitate animi anticipando l’analisi dell’inquietudine dell’uomo che «gira nella vita portandosi dietro la sua morte», con cui Agostino aprirà le Confessioni («Inquietum est cor nostrum»), e che molti secoli più tardi Fernando Pessoa, nel Livro do Desassossego, ripeterà alla lettera: «Non c’è quiete nel fondo del mio cuore, vecchio pozzo al confine del podere venduto»; «Io, proprio io, sono il pozzo senza pareti, ma dalle pareti viscide, il centro di tutto con il nulla attorno»; «Noi non ci realizziamo mai. Siamo due abissi: un pozzo che fissa il Cielo»: dove risuona il «compendio di atomo […], tra questi due abissi dell’infinito e del nulla» di Pascal.

La metafora del «pozzo profondo della malinconia» Starobinski la porta alla luce studiando i testi di quel «certosino di malinconia» che fu Charles d’Orléans, poeta francese del Quattrocento, in cui, «per la prima volta forse nella letteratura occidentale, la malinconia viene legata all’immagine della profondità». L’arte è movimento, «memoria iniziatrice» che crea dinamismo negli individui e nelle civiltà, secondo la formula del poeta e critico russo VjaceslavIvanov con cui Ernst Robert Curtius concludeva Letteratura europea e Medio Evo latino (libro non a caso dedicato a Aby Warburg): nel 1933 Curtius, in crisi depressiva, era andato in analisi da Jung; e nel 1948, attraverso il suo capolavoro storiografico, di fronte alle macerie della guerra riscattò il valore terapeutico della speranza collettiva offerta dalla letteratura contro l’oblio e l’abbandono, dichiarando che «nella odierna situazione spirituale non v’è alcuna esigenza che appaia tanto imperiosa come quella di ristabilire la “memoria”».

La stessa idea Starobinski la lega alla figura allegorica del pozzo: nella tenebra d’inferno della malinconia «la speranza è ciò che zampilla nella profondità: ogni sorgente è la figura di una speranza». Come scrisse altrove a proposito di Freud, anche alla base della terapia psicoanalitica c’è un movimento di discesa e di ascensione: «un movimento fisico e un intreccio drammaturgico», un flusso di energia che emerge zampillando dalla profondità oscura e trasformandosi in destino di salute.
In questo libro eruditissimo, che spazia sull’arcata di tutta la cultura scientifica e letteraria occidentale,Jean Starobinski non ricorda Pessoa: ma l’immensa mole di ricostruzioni storico-ideologiche che accumula per capire le faglie fra i sistemi di saperi, e di analisi testuali che svolge su Robert Burton, Cervantes, Hoffmann, Kierkegaard, Madame de Staël, Roger Caillois, Pierre Jean Jouve, soprattutto Baudelaire, ci aiutano a capir meglio, fra tanti classici,anche il Libro dell’Inquietudine, e a riconoscere in questo grande pascaliano e agostiniano senza grazia che dichiara di stare «scrivendo le sue Confessioni», in cui «non dice nulla perché non c’è nulla da dire», il perfetto modello del malinconico del nostro tempo, quello che un altro malinconico ironico, Guillaume Apollinaire, definiva il guetteur mélancolique.

Immobile «alla finestra» della vita per osservare e ascoltare «il passaggio di tutte le cose in una sfilata attraverso di me» (A passagem das Horas), attraverso la malinconia Pessoa costruisce un’«estetica dell’indifferenza». «Argonauta della sensibilità dolente» che proclama: «sentire e necessario, ma vivere non lo è», «vive così, di pura visione, l’esterno inanimato dalle cose e dagli esseri, indifferente, come un dio d’un altro mondo, al loro contenuto spirituale». Il mondo è deglutito nello spazio che nel Libro dell’Inquietudine Pessoa definisce il «dentro di me»: la scrittura è il suo riscatto fantasmatico.

Molte pagine di Starobinski sono dedicate all’ennui, allo spleen, alla «morte vivente» che Baudelaire, «il supremo esperto di malinconia», incastona nel cuore delle Fleurs du mal, descrivendo l’immobilità pietrificata dello sguardo malinconico che osserva il frenetico trasformarsi, intorno, della città moderna: «Paris change! Mais rien dans ma mélancolie / n’a bougé»; e la rima con malinconia è, con straordinaria e allusività, allegoria: «tout pour moi devient allégorie» (Le Cygne, che per Starobinski è «uno dei paradigmi più intensi della malinconia riflessiva»). Con quale precisione Walter Benjamin, nel gigantesco abbozzo di libro mai giunto a compimento, che Giorgio Agamben ha scoperto e pubblicato – Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato (Neri Pozza, 2012), individuava nell’«inquietudine irrigidita» la formula perfetta per la biografia spirituale di Baudelaire, aggiungendo che quel grande pensatore poetante, l’ultimo allegorista nel cuore della modernità, è «un incomparabile rimuginatore»: e il Rimuginatore, nuovissima figura del Malinconico, «è di casa fra le allegorie».Mi sembra significativo che Benjamin rinomini il Malinconico «Rimuginatore». Uno degli epicentri degli studi starobinskiani sulla malinconia è il tema del nome che le civiltà hanno assegnato a questa realtà fisico-spirituale, per circoscriverla e renderla visibile dandole consistenza verbale: «la storia dei sentimenti e delle “mentalità” solleva una questione di metodo che concerne il rapporto fra sentimenti e linguaggio». Già negli anni venti del Novecento Marcel Granet e Marcel Mauss, nel Linguaggio dei sentimenti, avevano posto il problema di una «grammatica» e di una «sintassi» delle espressioni emozionali.

Scavando nell’idea di nostalgia, nel saggio su L’invenzione di una malattia, Starobinski mette a fuoco come «un sentimento si inscriva in un nome», e «la storia dei sentimenti non possa essere […]altro che la storia delle parole tramite cui l’emozione si è enunciata»: l’oggetto della ricerca si configura solo a partire dal momento in cui si verbalizza il «nome dell’emozione», del «sentimento», della «malattia». Definire Rimuginatore il Malinconico è un ulteriore scalino nella storia del progressivo decadere della Malinconia nella modernità. L’ultimo passo è, credo, la terribile diagnosi che lo stesso Baudelaire affidò agli appunti di Mon cœur mis a nu e di Hygiène: «Della vaporizzazione e della centralizzazione dell’Io. Tutto è là»; «Ho coltivato la mia isteria con godimento e terrore. Ora ho sempre le vertigini, e oggi 23 gennaio 1862, […]ho sentito passare su di me il vento dell’ala dell’imbecillità».

Per secoli gli uomini, cercando la «causa» di un male spirituale, l’hanno identificata in una disarmonia materiale, in un interiore dissesto degli equilibri fra corpo e anima, fra mente e carne. Come il gesto dello sciamano dei Cuna panamensi studiato da Claude Lévi-Strauss in uno dei saggi più acuti del testo fondativo della moderna etnologia, Antropologia strutturale, così anche il dito del medico antico e medioevale che indicava la «causa» della malinconia nel «carbone umorale», o dello psichiatra che nel nostro tempo la riconosce nel «blocco» causato dall’inconscio, ha un’immediata «efficacia simbolica», restituendo l’evento della malattia a un nuovo orizzonte di senso e di movimento dello spirito: «la forma mitica precede il contenuto del racconto», e ogni mito è «una ricerca del tempo perduto». Guarire significa, allora, ritrovare il tempo perduto, «smarrito» dal malinconico nella sua fissazione che occupa l’intero lo spazio psichico impedendogli di fare anima, per usare la bellissima formula che l’analista junghiano James Hillman ha preso in prestito dal poeta John Keats. I poeti conoscono, come i filosofi e i medici, e forse anche come i critici e gli antropologi, l’arte di «trasformare l’impossibilità di vivere in possibilità di dire».

Una delle armi terapeutiche più forti per la malinconia nera come l’inchiostro è proprio l’inchiostro: la letteratura, la poesia, insomma l’arte, rovesciando le immense energie spirituali bloccate «dentro» dall’impietramento malinconico riescono a riavviare il ritmo del tempo. Il malinconico Robert Burton, nella sua strabocchevole Anatomy of Melancholy, che è «il festino di Sardanapalo dell’erudizione classica», dichiarava che il suo libro era nato da «un enorme caos e garbuglio di libri»: e ci invitava così a «interrogarci sul rapporto fra la malinconia e l’incessante inserimento, in seno al proprio, di un discorso preso a prestito».

Ha ragione Fernando Vidal, che nelle sue belle pagine conclusive sull’Esperienza malinconica nello sguardo della critica riconosce nel saggio la «forma specifica di pensiero e di scrittura» di Starobinski. Come il «suo» Montaigne en mouvement, anche Starobinski con l’essai intende «descrivere non l’essere, ma il passaggio», e indaga i testi proprio nel loro «essere “di passaggio”»: e così oppone alla malinconia, che è «il rovescio del saggio», sempre nuove origini e nuove partenze, e un’armoniosa, ben temperata inquietudine ermeneutica.