La nuova legge elettorale e il disegno di legge di revisione costituzionale sono al riparo dall’ira funesta di Berlusconi? Ammesso e non concesso che l’ex Cavaliere tenga fermo il proposito di «non farle diventare leggi della Repubblica» come ha detto ai suoi parlamentari nel momento della massima stizza, c’è da chiedersi quanta presa possa ancora avere il padrone sconfitto di Forza Italia sulle sue truppe in libera uscita, qualunque decisione prenda. Ma stiamo ai fatti.

Tutti i numeri del premier

La legge elettorale ritorna alla camera entro la fine di febbraio. Anche senza Forza Italia (al limite persino senza i deputati di Alfano, se qualcuno avesse creduto per un attimo ai furori del ministro) Renzi ha i numeri, con Scelta civica, per farla passare. La minoranza Pd avanza alcune richieste, prima fra tutte quella di aumentare il numero di deputati eletti con le preferenze, ma già a marzo scorso non si è messa di traverso nel voto finale. In ogni caso se ci fossero modifiche potrebbero solo essere peggiorative per Berlusconi, anche sulla clausola di salvaguardia che rinvia al 2016 l’applicabilità dell’Italicum, dunque all’ex Cavaliere conviene stare dentro.

Anche perché non è detto che la legge elettorale non debba tornare al senato – a rigor di logica dovrebbe tornarci certamente visto che va corretta in alcuni passaggi tecnici. Al senato i voti di Berlusconi, anche quei pochi che gli restano depurati dalla fronda di Fitto, si sono dimostrati indispensabili. Per Renzi, che ha potuto ignorare la parallela fronda Pd, ma soprattutto per Berlusconi, che ha ottenuto i capilista bloccati. Pare che l’ex cavaliere in queste ore abbia promesso ai suoi che le circoscrizioni saranno aumentate da cento a centoventi, se è vero è solo una lusinga per tenere legati a sé 120 aspiranti capilista. Visiti i sondaggi per Forza Italia sarà difficile anche raggiungere cento eletti.

Discorso solo in parte simile sulla riforma costituzionale, il cui esame è stato interrotto alla camera prima degli articoli più importanti. Le modifiche rispetto al testo uscito dal senato sono state pochissime e marginali, hanno riguardato fin’ora solo quattro articoli (in totale sono 40); e solo gli articoli modificati potranno essere oggetto di ulteriore lettura al senato. I tempi sono più lunghi per la procedura prevista dalla revisione costituzionale: dopo l’ultima approvazione conforme bisognerà aspettare la «pausa di riflessione» di almeno tre mesi, poi ci sarebbero i tempi del referendum confermativo. E nel frattempo un eventuale scioglimento delle camere farebbe crollare la riforma su se stessa, il parere dei costituzionalisti è concorde. Fino alla promulgazione la legge è a rischio perché non ha perfezionato l’iter di formazione, dunque Renzi accelerando la crisi prima della primavera 2016 rinuncerebbe alla sua riforma.

Ma ha senso parlare di elezioni anticipate con un nuovo presidente della Repubblica appena insediato? Da un punto di vista costituzionale ha senso, e proprio immaginando un rientro del capo dello stato nel perimetro delle sue legittime attribuzioni – e di Mattarella si ricordano diversi interventi contro una «visione troppo estensiva del ruolo del presidente». Se si guarda agli ultimi quattro, cinque anni, si vede che il protagonismo di Giorgio Napolitano si è esercitato in senso inverso, nel senso cioè di allontanare ostinatamente l’ipotesi di scioglimento delle camere anche quando poteva essere quello l’orientamento del partito di maggioranza relativa. Oggi il pallino è nella mani del segretario del partito democratico, senza il quale nessuna maggioranza è possibile né alla camera né al senato. Se Renzi decidesse di chiedere le elezioni, se i suoi gruppi parlamentari decidessero di seguirlo fino in fondo, il nuovo presidente della Repubblica avrebbe difficoltà a non sciogliere le camere. E proprio per questo, da un punto di vista politico, è un’ipotesi di cui non ha senso parlare adesso, anche perché buona parte della forza parlamentare di Renzi sta nel poter offrire una prospettiva lunga alla legislatura.

L’incerto senato

Con quale legge elettorale si andrebbe poi alle elezioni anticipate? La clausola di «salvaguardia» inserita nell’Italicum – salvaguardia per i deputati e i senatori più che per i partiti – non è un grosso problema, visto che è facilmente aggirabile da un decreto del governo (che peraltro dovrebbe necessariamente intervenire per ridisegnare i collegi). Il problema è che in assenza della riforma Costituzionale che risolverebbe il problema alla radice (è prevista una sola camera elettiva) l’Italicum non è una legge estensibile al senato, perché prevede il ballottaggio e può determinare risultati opposti nelle due camere. C’è allora il Consultellum, il sistema proporzionale venuto fuori dalla Corte costituzionale che prevede per il senato soglie molto alte di sbarramento e una preferenza. Il rischio di ingovernabilità ci sarebbe ugualmente, ed è il caso di ricordare come una delle ragioni per la quali Sergio Mattarella è sempre stato ostile al Porcellum era la previsione di due meccanismi diversi per camera e senato, prefigurando per il senato maggioranze risicate. Naturalmente il padre del Mattarellum ha avuto altre critiche per la legge elettorale di Calderoli: scettico in generale verso i premi di maggioranza, lo è stato in particolare per il premio assegnato alla lista per la facile previsione dei «listoni» pronti a dividersi dopo le elezioni. In più Mattarella è stato un feroce critico delle liste bloccate, da politico prima che da giudice costituzionale che ha votato per l’incostituzionalità di quella norma. Sono vizi che l’Italicum in parte replica. Tanto? Poco? Mattarella dovrà adesso giudicarlo da una differente prospettiva.

Il pronostico di Bindi

«Mattarella non è uno che enfatizza il conflitto istituzionale, ma non è neanche uno che firma tutto senza studiare con attenzione gli atti», ha detto ieri forse un po’ precipitosamente Rosy Bindi. L’affermazione si presta a una duplice lettura, perché potrebbe alludere al fatto che il futuro presidente, uomo discreto, limiterà gli interventi di moral suasion per concentrarsi su un esercizio accorto del potere di firma. Eppure di fronte a un presidente del Consiglio che governa con decreti, maxiemendamenti e fiducie, e che quando qualcuno glielo fa notare risponde che ce ne saranno di più e ancora, nell’ultimo anno è mancata proprio la capacità di freno del Quirinale. «Uno squilibrio del rapporto fra premier e camere sarebbe inaccettabile», scriveva qualche anno fa il presidente designato; una convinzione che tornerà utile per andare incontro alle riforme costituzionali: un professore di diritto pubblico come lui non si limiterà a guardarle passare. «Non sfugge quanto possa influire il capo dello stato sull’approvazione o meno di una riforma costituzionale», scrisse una volta Mattarella, polemizzando sui giornali a proposito della rielezione di Scalfaro – da lui caldeggiata in attesa di introdurre l’elezione diretta del presidente della Repubblica, per la quale si spendeva. E nell’omaggio a quel presidente al quale già vogliono paragonarlo – tanto i detrattori quanto i sostenitori – Mattarella esaltò «la tensione morale nei confronti dell’esigenza di uno sforzo di attualizzazione delle istituzioni», a riprova che Renzi ha ragione nel presentarlo come un i in materia costituzionale. Ma già allora Mattarella ringraziava Scalfaro per «la vigilanza sull’equilibrio delle funzioni e dei poteri delineato nella Carta». Quell’equilibrio che è in fase di rottamazione.