Lo psicoanalista Jacques André vede nel massacro della settimana tragica parigina «molte cose che riguardano la violenza dell’adolescenza», che cortocircuita il pensiero. «L’inconscio è un selvaggio – aggiunge – mai la democrazia sarà l’erede dell’inconscio, si farà sempre contro di esso, non c’è né eguaglianza né fratellanza nell’inconscio. E se esiste una libertà, è assoluta e non addomesticata» (Libération, 14 novembre). Lo psicoanalista e antropologo delle religioni Malek Chebel, autore di una nuova traduzione del Corano e, tra l’altro, di vari libri sull’erotismo e l’amore nell’islam, ha appena pubblicato L’inconscient de l’islam (Cnrs Editions, pp.121, euro 15,90). Chebel va alla ricerca della fragilità affettiva ed emotiva del mondo arabo di fronte al progresso e s’interroga sulle radici del legame, anche ossessivo, con pratiche religiose del passato. Indaga anche «l’aggressività che ne deriva, isolata o di massa». All’origine, c’è il sentimento di colpa e la trasgressione: Chebel parla della guerra santa sviata, dell’esacerbazione della figura del kamikaze, della violenza simbolica esistente nella relazione madre-figlio, della censura, dell’immolazione in nome di una purificazione sacra, per cercare di fare un po’ di luce nelle relazioni tra islam e modernità.

«La colpa e la trasgressione sono dati cruciali per una vera comprensione dell’islam», afferma Chebel. Nel Dictionnaire des idées réçues, Flaubert aveva scritto: il Corano è «il libro di Maometto dove si parla solo di donne». Il libro di Chebel inizia con l’analisi del concetto di «guerra santa» e, malgrado la formula un po’ approssimativa di Flaubert, ci porta immediatamente al centro della questione femminile: «il Corano evoca regolarmente la donna, ma unicamente per rinchiuderla tra la colpa e la trasgressione». La guerra santa non è stata fatta solo per islamizzare il mondo pagano.

Sullo sfondo, c’era soprattutto il progetto di popolare l’harem con giovani donne venute da altrove. Una declinazione del Ratto delle Sabine, che oggi ha ancora dei suoi derivati: «qual è la vera natura della guerra santa a cui si aggrappano gli jihadisti di oggi, adepti del matrimonio temporaneo?» (è successo in Algeria nel corso de decennio nero degli anni ’90, accade dove domina l’Isis). L’harem, regno chiuso delle donne dove si costruisce una sorta di contro-potere, il serraglio, luogo dell’incontro, determina un destino di schiavitù: le donne vengono rinchiuse, con lo scopo di proteggere la loro purezza, senza chiedere il consenso. Oggi l’harem nella realtà appartiene al passato, ma l’eredità che ha lasciato continua a lavorare l’inconscio: «l’erotismo orientale è figlio di un desiderio contrariato – scrive Chebel – l’assenza di spazi misti, l’educazione separata di ragazze e ragazzi e, soprattutto, la necessità per le ragazze di non compromettersi sessualmente prima del matrimonio, sono i principali assi di definizione dell’erotismo, che lo limitano alla sola funzione riproduttrice».

Nell’antico schema, che malgrado tutto sopravvive, la donna trova il suo posto nella famiglia, nella società, solo grazie al figlio (maschio). «Non è tanto la madre che dà vita al figlio maschio quanto il figlio, perché è di sesso maschile, che dà vita alla madre». La madre trasforma lo spirito materno in uno spirito «ma(n)terno», sostiene Chebel, cioè si comporta come un mantra religioso. Il bambino nei primi anni di vita resta nell’harem, i legami fisici con la madre sono fortissimi. Il bambino arabo è onnipotente? «La relazione arcaica madre-figlio è fondatrice di un ordine complesso che funziona come una prefigurazione dell’individualità araba, dei suoi avatar di egoismo sproporzionato e dell’aggressività di cui l’uomo dà prova nei confronti delle figlie, delle sorelle e delle amanti». Per Chebel, «il ma(n)terno è, nella società araba, un ciclo particolare di interiorizzazione della Legge sociale, prima di diventare la legge sociale stessa. Questo ciclo ha come base il riferimento al Padre, ma è il femminile che lo mette in scena, che lo drammatizza». La sublimazione resta schiacciata sul reale, si confonde con esso, impedendo la distanza critica con l’attività dello spirito. Lo dimostra la vicenda delle Mille e una notte, «una metafora del sogno impossibile degli arabi, un motivo di superamento di sé e di elevazione». I racconti di Sheherazade «rafforzano attraverso la loro vitalità l’umiliazione che gli arabi hanno subìto dal loro declino, che è simbolicamente iniziato a Grenada nel 1492». L’ultimo califfato è finito nel 1923. Tra purificazione e immolazione, tra la figura del capro espiatorio che oscilla tra colpa a trasgressione (il tunisino Bouazizi, che si è immolato con il fuoco, scintilla che ha dato il via alla contestazione contro il regime di Ben Alì) e l’alienazione del kamikaze che nega l’umanità nelle sue vittime, l’inconscio lavora sul fondo, mentre i discorsi fatti dei politici, la loro corruzione, la violenza delle istituzioni difendono un ordine che è ormai vuoto di senso. I giovani si ribellano, ma molti sono ancora all’interno del circolo mortifero della colpa e della trasgressione