«Bollywood or Bust!». Questo, fino a pochi anni fa, sembrava gridare al cielo il cinefilo attratto dalle lusinghe esotiche del subcontinente indiano. Bollywood, il sogno lungo un secolo di un’industria di cinema popolare che non aveva bisogno di guardare dalle parti di Los Angeles per trovare un senso alle proprie narrazioni, ha incarnato per lungo tempo l’idea (troppo spesso ammantata di romanticismo) che esistesse un luogo di resistenza al predominio economico del cinema occidentale, in primis di quello hollywoodiano. Bollywood sinonimo di India, dunque. In pochi, membri di una sparuta minoranza, si sono preoccupati di indagare fino in fondo il cinema indiano, comprendendo come Bollywood non fosse che la punta di un iceberg, per di più ben caratterizzata da un punto di vista linguistico e quindi geopolitico: Bollywood è la roccaforte del cinema hindi, e solo in modo occasionale urdu, non rappresentando dunque la totalità della Settima Arte indiana. Una nazione che vede prosperare altre mecche sparse, come Tollywood a Hyderabad, Sandalwood a Bangalore, Mollywood nel Kerala, e ovviamente Kollywood.
Situato a Chennai, e per l’esattezza nel distretto di Kodambakkam, Kollywood è l’epicentro della produzione dei film in lingua tamil, la seconda industria cinematografica del subcontinente, e l’unica a parte Bollywood e il cinema d’autore a ottenere una certa visibilità all’estero, in particolar modo negli Stati Uniti e in Francia. Ma anche in giro per i festival, visto quel che è successo a Venezia durante la settantaduesima Mostra del Cinema… Mentre in Venezia Classici, tra i restauri in digitale di gemme del passato era possibile imbattersi – in hindi – nel monumentale Pyaasa di Guru Dutt (conosciuto anche in Italia con il titolo Sete eterna), la selezione contemporanea della Mostra ospitava ben due opere in lingua tamil. Una, il thriller politico mozzafiato di Vetri Maaran Visaaranai (Interrogation), concorreva nella sezione Orizzonti; l’altra trovava invece collocazione sempre in Venezia Classici, ma tra i documentari dedicati al cinema. In questo modo For the Love of a Man di Rinku Kalsy è riuscito ad approdare sulle sponde lagunari del Lido, anche se la sua sistemazione nel palinsesto rimane un po’ forzata. For the Love of a Man non ha un granché a che spartire con il documentario biografico su Jacques Tourneur o il ricordo di Alfredo Bini tratteggiato da Simone Isola, e non per una mera questione stilistica o estetica. La Kalsy, che si è formata in Europa, e per l’esattezza in Olanda, prima di cercare fortuna in patria dove ha anche fondato una piccola casa di produzione, la Anecdote Films, non ha alcun interesse a scrivere per immagini una storia del cinema tamil, né si accontenta di abbozzare un ritratto di questo o di quell’altro artista. Il nucleo di For the Love of a Man, per quanto prenda spunto da una figura iconica del cinema tamil come l’attore Rajinikanth, è da rintracciare negli occhi adoranti di migliaia di appassionati cultori. Rajinikanth, nome d’arte di Shivaji Rao Gaekwad, è da quarant’anni il divo per eccellenza del pubblico di Chennai e dintorni. «A Kollywood ci sono molte star, ma lui è l’unica vera superstar», ci ha confidato a Venezia il produttore del film, Joyojeet Pal; e infatti i suoi fan lo chiamano «Thalaivar», leader. Rinku Kalsy, attraverso un dedalo di interviste, fa sprofondare il suo documentario nei meandri di un sottobosco umano per il quale è difficile trovare pietre di paragone: tra giovani nerd invasati che sfruttano l’arma non convenzionale dei social network per diffondere il culto di Rajinikanth, commercianti che vivono in completa devozione della figura dell’attore, imitatori che hanno trovato nella replica delle sequenze più celebri il modo di sostentarsi e adepti che sono pronti anche a martoriarsi le carni pur che il nuovo film del loro mito ottenga il meritato successo commerciale, For the Love of a Man scavalca con un balzo il semplice resoconto di una carriera artistica per indagare le pulsioni di un popolo che ha trovato nel cinema una nuova religione.
Non è certo un caso che buona parte degli intervistati si dichiari atea: tra i vari santoni, sadhu e guru a cui mostrare devozione, perché non trovare spazio anche per un attore? Anche perché Rajinikanth è un uomo del popolo: si è guadagnato da vivere per anni come autista di pullman, e nei suoi film interpreta sempre personaggi dalle origini umili, meritevoli di un riscatto che inevitabilmente dovrà essere raggiunto. Negli occhi degli spettatori (quasi tutti uomini, al punto che le rispettive mogli vengono trascurate per non sottrarre spazio e tempo al culto di Rajinikanth) quell’uomo baffuto e dalla struttura tozza che canta, balla e combatte per loro sullo schermo, non è un semplice attore. È un simbolo, un simulacro, una divinità in carne e ossa. È inattaccabile e imbattibile, e ben lo sa il gestore del cinema che proiettò la prima dell’unico film in cui uno sceneggiatore aveva osato decretare la morte del suo personaggio: sedie divelte, carta da parati lacera e uno schermo ridotto in brandelli. For the Love of a Man apre il fianco a una serie di quesiti che non possono trovare ancora una risposta: può il cinema, con la veicolazione di un’immagine a suo modo sacrale, sovrapporsi o sostituirsi alla religione? E può un popolo trovare in un’immagine fittizia lo scopo per portare avanti le proprie battaglie? Ai posteri l’ardua sentenza. O, meglio, ai discepoli…