Itaca, Same, Dulichio, Zacinto: nomi d’isole omeriche il cui «nome greco è un verso a ridirlo», per citare Quasimodo, notoriamente e inguaribilmente grecomane. E se delle isole omeriche ci suonano lirici i nomi, figurarsi gli epiteti: Zacinto è «selvosa», Dulichio è «folta di grano», Same è «tutta dirupi», Itaca (inutile dirlo) è «petrosa». Il formulario dell’epica, tramandato e affinato per secoli dai professionisti dell’oral poetry, ci restituisce così una geografia senza tempo, dove la realtà naturale si sublima in pura onomastica, che designa e insieme disegna, con un solo tratto, panorami marittimi e paesaggi insulari.
L’Odissea, fin dal suo «prologo in cielo», inizia con un’isola – l’isola dove Ulisse è prigioniero di Calipso – e in un’isola ovviamente termina, la sospirata Itaca: «un’isola bassa, l’estrema del mare, rivolta alla notte. Un’isola dura, ma buona nutrice di giovani. E niente più dolce di quella mia terra potrò mai vedere», come Ulisse stesso la descrive al re Alcinoo, nell’isola di Scheria, l’ultima da lui toccata prima di tornare alla sua petrosa patria.

Dove vissero gli Achei?

Qualche ellenista ispirato, di quando in quando, consiglia di vedere i luoghi per capire veramente i nomi, gli epiteti, le formule: per capire perché in Omero il mare sia «colore del vino», ma anche «canuto» e «brumoso», e perché le isole siano poeticamente «cinte dall’onde», e magari, come quella di Calipso, collocate «là dov’è l’ombelico del mare». Ma molti amatori e dilettanti, soprattutto, hanno preso sul serio la geografica omerica: il più famoso è Heinrich Schliemann, che dopo essersi arricchito col prestito a usura negli States e col traffico d’armi in Crimea, scoprì Troia – ci assicura lui nella sua epicheggiante autobiografia – facendo dell’Iliade la sua mappa. Un secolo circa prima di Schliemann, un altro grande pioniere della ricerca omerica on-the-spot, l’inglese Robert Wood, si mise in testa – dopo aver seguito i beduini siriani e libanesi alla scoperta di Palmira e di Baalbek – di «leggere l’Odissea nei paesi fra cui Ulisse viaggiò».

Ne uscì quel Saggio sul genio originale di Omero (1769) che incantò Goethe, a sua volta fanatico dell’Odissea, al punto da infliggerne la lettura a malcapitati pastori alpini, durante il suo viaggio in Italia; un saggio, quello di Wood, che all’inizio del Novecento suscitava ancora l’ammirazione del «principe dei filologi», Wilamowitz, disposto a ritenere la scoperta dell’esattezza pittorica di Omero in materia paesistica più rilevante di qualsiasi altra scoperta d’ordine linguistico operata sui poemi omerici.

Ma la geografia dell’Odissea – e in particolar modo la sua geografia insulare – non ha mai smesso di ispirare visionari più o meno credibili, nemmeno in tempi recenti. Non si può dimenticare che fu un boom editoriale, a metà degli anni Novanta, il surreale Omero nel Baltico di Felice Vinci, ingegnere nucleare. Portentosa la tesi, costata all’autore anni di ricerche: gli Achei vissero in origine fra il Mar Baltico e il Mare del Nord, e gli aedi omerici erano allora bardi norreni. Itaca è in Danimarca, ed è l’attuale isoletta di Lyo; l’arcipelago che nell’Odissea la circonda – tra la dirupata Same, la granosa Dulichio e la selvosa Zacinto – si lascia facilmente riconoscere nelle isole di Aero, Langeland e Tasinge: del resto, «Tasinge» non suona un po’ come «Zacinto»? E il mare omerico non è «brumoso»? E Ulisse non deve affrontare, tra Scilla e Cariddi, il maelström?

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Pare incredibile, ma questo sogno a occhi aperti, debitamente nutrito di pseudo-climatologia, pseudo-topografia e pseudo-linguistica, ha conquistato molti lettori. Dispiacerà un po’ ai patrioti nostrani che la stessa fortuna non sia arrisa ai tanti volenterosi che, da Victor Bérard negli anni Venti fino ai giorni nostri, hanno disseminato per il territorio italiano – dalla Sardegna alla Campania all’Adriatico – le mitiche tappe del viaggio odissiaco; del resto, come dimenticare Samuel Butler e il suo L’autrice dell’Odissea (1897), che volle situare in Sicilia le peripezie dell’eroe omerico, e attribuirne l’invenzione a una giovane donna locale?

Ipotesi immaginifiche

Dispiacerà invece ai cultori di mitologia astrale, o di archetipi junghiani, che abbia avuto poco seguito l’ipotesi sviluppata qualche anno fa da Gioachino Chiarini, secondo il quale l’Odissea, di isola in isola e di tappa in tappa, attraverso una continua alternanza di rotte occidentali e rotte orientali, paesaggi solari e paesaggi inferi, delineerebbe la mappa di un labirinto, immagine terrestre di un percorso celeste zigzagante fra pianeti e costellazioni. Suggestiva trovata – basta soltanto farsi tornare i conti – che strappò a qualche giornalista buontempone il commento: «l’Odissea di Omero era già un’Odissea nello spazio».

Più saggio di tanti immaginosi moderni, uno dei padri della geografia occidentale, Eratostene, sbrigava la questione con una boutade passata alla storia grazie a Strabone: «si scoprirà dove ha vagato Odisseo quando si scoprirà il cuoiaio che ha cucito l’otre dei venti». La battuta non bastò, e l’antichità – ben prima delle speculazioni odierne – ha cercato senza tregua le isole di Ulisse, ubicando Itaca, prevedibilmente e preferibilmente, fra le Ionie dell’Eptaneso, dov’è l’Ithaki odierna. Un privilegio, quello della minuscola isoletta, messo in discussione nel 2005, quando l’imprenditore Robert Bittleston, corroborato da un grecista insigne come James Diggle e da un geologo autorevole come John Underhill, avanzò un’ipotesi ben congegnata: che l’Itaca omerica fosse da collocare a Paliki, penisola nord-orientale di Cefalonia.

Verità e frottole

Ma Ithaki si è presa la sua rivincita nel 2010, e oggi ai turisti si esibisce l’esito mirabile dello scavo condotto da un team archeologico di Ioannina: un palazzo miceneo prontamente identificato – il marketing è marketing – con il «palazzo di Ulisse». Niente di nuovo: Pausania – il «aedeker» dell’antichità, secondo una definizione che infastidiva Giorgio Pasquali – si imbatte non di rado in monumenti presentati ai turisti come testimonianze di Ulisse e del suo peregrinare.
Ma al di là di Itaca, dolce agli archeologi non meno che al suo re ramingo, che dire delle altre isole, quelle che ci sembrano ben più rilevanti e fascinose entro la mappa ideale dell’Odissea? Dov’è l’Ogigia di Calipso o l’isola delle Sirene? Il Ciclope sta davvero in Sicilia, a capo Lilibeo, e l’isola di Eolo è Lipari? E l’isola del Sole e la Scheria dei Feaci? Al proposito, c’è un punto che non va dimenticato. Quelli che nel comune immaginario sono gli episodi cruciali dell’Odissea hanno nel poema uno statuto narrativo peculiare: sono racconti dello stesso Ulisse, presso la corte dei Feaci, e occupano appena quattro libri su ventiquattro.

C’è chi si è domandato: saranno racconti veritieri? La domanda non è demenziale come sembra, se solo la si riformula a questo modo: gli aedi dell’Odissea intendono suggerirci che Ulisse sta mentendo e inventando, qui come in tanti altri luoghi del poema? Del resto, perché i personaggi dell’Odissea, a Scheria e a Itaca, si sentono così spesso minacciati da cantastorie o contafrottole itineranti? Può esserci della malizia nell’elogio che Alcinoo rende a Ulisse nel bel mezzo dei suoi racconti? «Ulisse», gli dice il re dei Feaci, «davvero non ci sembri un imbroglione, un truffatore, come tanti la terra nera ne alleva, di tutte le specie, inventori di false storie». «Tu no», prosegue Alcinoo, «tu sei come un aedo, tu racconti con arte»: e ha spiazzato molti interpreti il fatto che alle frottole dei cantastorie imbroglioni sia opposta non la verità del testimone autoptico, ma la perizia artistica del buon cantore. Come dire: una bugia bella è quasi verità.

Mondi sulle rive

Una malizia simile non stupirebbe troppo da parte di aedi come quelli dell’Odissea, che tanto volentieri inscenano le performances di altri aedi, loro mitici colleghi (Femio, Demodoco, lo stesso Ulisse), e che tanto spesso mostrano di saper giocare con il patrimonio dell’epos anteriore e coevo (che cos’è la discesa all’Ade, con la sua rassegna d’eroi e d’eroine, se non una rassegna di bestsellers epici, Iliade compresa?).
Con l’Odissea, ha scritto Vincenzo Di Benedetto, nasce la «letteratura di secondo grado». Di qui i racconti di Ulisse, che sono il racconto di un racconto. Di qui le sue isole e i suoi viaggi, che lasciano appena intravedere, dietro il velo del folk tale, la realtà cruda della colonizzazione greca degli anni bui e dell’arcaismo. Viaggi che presto, si sa, si immaginarono protratti fin oltre le Colonne d’Eracle: al di là di quel piccolo mondo mediterraneo che noi abitiamo, diceva il Socrate del Fedone, «standocene in riva al mare come rane intorno a uno stagno».

Le altre pagine uscite in Per Terra e per mare

1 – Iain Chambers, La schiavitù galleggiante

2 – Marco Bascetta, Il naufrago testimone

3 – Giuliana Misserville, Liquide sponde di piacere

4 – Angelo Arioli, Un miraggio all’orizzonte

5 – Laura Fortini, Un apprendistato di lotta e grazia

6 – Michela Pasquali, I giardini fluttuanti

7 – Andrea Capocci, Il business genealogico

8 – Tommaso Ariemma, La tentazione dell’isola assoluta

9 – Tiziana Migliore, Comunita di folli alla deriva

10 – Simone Pieranni, A cena con la Setta