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C’è un quesito a cui solo i filosofi possono rispondere: che cos’è l’economia? Il suo campo normativo si è così tanto allargato nella storia dell’uomo (intesa come dominio patriarcale su tutti gli altri esseri viventi) da apparire universale, atemporale, assoluto. L’antica «scienza dell’amministrazione domestica» (Senofonte) si è allargata dal clan all’intera società organizzata e si occupa ora non solo della cura del patrimonio privato familiare, ma prescrive norme di gestione per l’utilizzo delle intere risorse materiali e immateriali a disposizione dell’umanità. Tutto, insomma, è economia. Così è inevitabile che l’economia pretenda di essere incoronata come la regina delle scienze sociali.

Questa egemonia disciplinare, culturale e politica si è andata affermando nel tempo e, come noto, trova nel secolo dei Lumi (François Quesnay, Adam Smith e molti altri) i suoi teorici. L’economia si smarca dalla teologia, dalla filosofia e persino dalle scienze naturali conquistando uno statuto autonomo, oggettivo, free etics esattamente come la fisica di Newton e di Cartesio: il denaro viene attratto dal profitto – ci insegnano – come la mela dalla forza di gravità. Nel frattempo, però, la fisica si è evoluta con le teorie sulla relatività e dei quanti. L’economia no. Nemmeno di fronte alle più cocenti prove di fallimento si smettono di ripetere le solite idiozie: l’allargamento dei commerci porta alla pace universale, l’innovazione tecnologica risolve ogni problema di scarsità, la marea solleva tutte le barche nel porto e così via. La domanda giusta è allora perché l’economia continua ad avere ancora così tanta credibilità da essere l’unica lingua parlata in società? Che cosa ci tiene intrappolati in una condizione di schiavitù economica volontaria, quando potremmo lavorare tre ore al giorno e sfamare 12 miliardi di persone? È possibile trovare forme, modalità, pratiche di produzione e di utilizzazione dei beni e dei servizi che siano davvero utili al ben vivere di tutti e non solo ad una minuscola oligarchia?

Roberto Mancini, professore di filosofia teoretica, di cultura cristiana, impegnato nel movimento dell’economia sociale e solidale, ha provato a darci qualche risposta con un poderoso studio storico analitico e propositivo: Trasformare l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche (Franco Angeli, pp 330, euro 39). L’economia politica capitalistica è criminale. Mutua i propri comportamenti dalla guerra di conquista. «La competizione implica per definizione la negazione dell’altro». Come dice Bergoglio: «Questa economia uccide». Al fondo il capitalismo premia una visione antropologia che ci hanno lasciato Machiavelli e Hobbes. Gli uomini sarebbero individui malvagi, avidi, inaffidabili. Privi di coscienza morale e di capacità di amare. «Il capitalismo è un’idea sbagliata, fondata su sentimenti oscuri e aspirazioni distorte». Cambiare l’economia implica allora una trasformazione che la trascenda. Serve quantomeno una diversa finalizzazione degli scopi della cooperazione sociale indirizzandoli al bene comune. Serve una diversificazione dei processi tenendo conto delle caratteristiche degli input che hanno valore in sé: servizi eco-sistemici, lavoro umano. Serve ridimensionare il ruolo degli strumenti operativi dell’economia, ad iniziare dal denaro. Serve riconfigurare le modalità operative con cui si confrontano gli attori sociali: produttori e consumatori, proprietari ed deprivati, abitanti e profughi, donne e nuove generazioni… È il concetto stesso di economa che va trasformato. A partire dall’attivazione di nuove pratiche.
Dopo aver trattato delle più importanti tradizioni di pensiero e delle fonti spirituali che hanno influenzato il nostro modo di operare, la parte centrale dello studio di Mancini è dedicata ad una utilissima descrizione di varie fattispecie di economie altre. La sua idea è che possano e debbano integrarsi dando vita al una economia plurale (come sostiene anche la New Economic Foundation e il Weppertal Insitut). Nella grande famiglia dell’economia sociale e solidale sono inserite le esperienze dell’economia popolare di sussistenza, dell’economa di resistenza e di liberazione (Euclides Mance), dell’economia locale gandhiana, di comunità (Adriano Olivetti), di comunione (Chiara Lubich), civile e umana (Zamagni e Bruni), del bene comune (Christian Felberg), partecipativa e deliberativa (Michael Albert, Peter Ulrich), collaborativa. Nella famiglia della bioeconomia (Georgescu-Roegan, Martìnez Alier) c’è l’economa circolare e quella rigenerativa (Marjone Kelly).

Nella famiglia molto di moda e molto ambigua della sharing economy, c’è l’economia del noi, della condivisione. Infine ci sono le non-economie della decrescita (Latouche) e la commonomics, l’economia dei commons (Raul Zibechi). Nel 1973 Herman Daly, Kenneth Boulding e altri avevano scritto un Manifesto per una economia umana. Recentemente è stato pubblicato il Manifesto convivialista ispirato da Alain Caillé. Le idee non mancano e nemmeno le buone pratiche diffuse nella galassia dei movimenti nei tanti Sud del pianeta così come nel decadente Nord. «Le grandi svolte sono il risultato di mille svolte quotidiane». Ciò che è assente è una politica capace di prenderle sul serio. In definitiva: «Per trasformare l’economa è necessario, oltre che cambiare politica, cambiare la politica in maniera che diventi uno strumento coerente con l’etica della dignità e del bene comune e con i processi di democraticizzazione che essa esige».