Una ragazzina e il fantasma del padre scomparso all’improvviso dal quadro della fotografia familiare. Era il 1977, lei lo adorava quel bell’uomo alto e biondo, era il suo supereore. Adulta le è rimasta una sola immagine che la ritrae da sola insieme a lui: quella di una bimbetta piccolina inconsapevole sulla riva del lago accanto che strizza gli occhi all’obiettivo. Presentato in concorso La idea de un lago è il nuovo film di Milagros Mumenthaler, regista argentina cresciuta in Svizzera (anche autrice della sceneggiatura) che avevamo scoperto (piacevolmente) qualche anno fa proprio qui a Locarno con l’esordio Abrir puertas y ventanas (2011) premiato col Pardo d’oro. Anche lì il punto di partenza erano una famiglia, tre sorelle immerse nella traiettoria chiusa, soffocante di quei legami che costringono a una prossimità non scelta ma imposta. E un’assenza, una madre che lascia le figlie alle prese con la vita, il futuro, l’eredità del passato.

Per questo è una delusione ritrovarla con un film che del precedente non conserva la grazia di stile e la cura per gli attori, precipitando in un’immagine piatta, in una recitazione forzata – a cominciare dalla protagonista che rende il suo insopportabile personaggio «semplicemente» insopportabile senza neppure un’ambiguità. Ma soprattutto è l’uso della dimensione privata come lente attraverso la quale restituire la storia a risultare molto fastidioso nella sua superficialità.
Non è una novità nel cinema argentino prendere la famiglia, quasi sempre upper class alto borghese, come specchio in cui riflettere un passato collettivo: la «palude» della dittatura nei film di Lucrecia Martel o gli incestuosi interni familiari in quelli di Augustina Carri. Cosa cerca dunque Ines scrittrice che sta per pubblicare il suo romanzo, un’autofinzione come intuiamo dai brani che recita frontalmente alla macchina da presa, e per avere il primo figlio dal compagno che però non vuole più accanto a sé? Mettere in ordine nei suoi ricordi di bambina, ricomporre il suo paesaggio intimo aggiungendo il frammento mancante: il padre e per riflesso la madre, figura enigmatica di sofferenza e di solitudine, bella e corteggiatissima ma infastidita nella sua memoria infantile dai maschi che le rivolgevano un sorriso in più.

La casa sul lago era quella in cui con la grande e ricca famiglia si ritrovavano ogni estate, i giochi coi cugini, i fumetti coi superpoteri che il fratello minore divora, le sfide a nascondino nel bosco di notte ma è soprattutto la ricerca della sagoma paterna svanita che muove l’inquietudine di Ines. Il vuoto lasciato da un uomo, un padre desaparecido come a migliaia gli stessi anni nell’Argentina di Videla. Per questo Ines decide di fare il test del Dna e si rivolge alle associazioni che provano a dare un nome alle ossa ritrovate nelle fosse comuni nonostante la madre sia contraria. C’è forse un altro segreto, la coperta familiare del silenzio reso eroismo?O è ancora un’altra illusione, il non-detto che continua a attraversare il rapporto tra la società argentina e il suo passato?

Tutte queste domande pero’ nel film di Mumenthaler non vengono mai affrontate. La regista preferisce lasciarsi cullare dalle fantasie (molto Gondry) di una Renault4 verde acido che danzano sulla superificie dell’acqua, o dai (finti) filmini familiari. La Storia è una tela di fondo, uno «strumento» narrativo da lasciar scivolare tra superfici morbide, consensuali, mai troppo disturbanti. Ammiccando in modo maldestro a qualcos’altro, un motivo che si insegue nelle diverse generazioni, la difficoltà di un rapporto d’amore – come lei anche il fratello si è appena separato. Non sarà quello invece la scomparsa? L’ambiguità gioca fino in fondo, quell’uomo che la madre scorge potrebbe essere il padre, un’altra menzogna allora folle e crudele che però non trova alcuna corrispondenza nella sostanza narrativa attivata fino a quel punto.

C’è in fondo qualcosa che rende – con eccezioni per fortuna – i film visti quest’anno a Locarno un po’ tutti uguali (come allora non amare la passione di Joao Pedro Rodrigues o l’irriverenza di Julio Bressane). Tutti un po’ «artie», molto misurati, privi di sbavature, eccessi, cadute, orizzonti, in cui la relazione con la Storia diviene un elemento decorativo come gli altri. A cosa serve parlare delle rivolte in Thailandia nel 1976 come accade in Dhao Khanong (concorso) della cineasta thailandese Anocha Suwicharkonpong, una sorta di divagazione artistica buddista sulle trasformazione dell’esistenza. Il riferimento più che esplicito è (maldigerito) Apichatpong Weeresethakhul ma il sentimento del tempo, il suo fluire impalpabile negli interstizi di passato e presente producono nei suoi film un sentimento forte e universale del mondo, una vita, il racconto di storie e di una Storia nascoste. Qui invece i dettagli e le metafore, i diversi personaggi che si susseguono e forse si sfiorano, la persistenza delle immagini e il loro possibile deteriorarsi non costruiscono mai un universo.      

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Un cantante pop molto famoso muore in un incidente di automobile, una giovane filmmaker vuole girare un film su una donna che da ragazza era nel movimento studentesco massacrato all’università di Thammasat nel ’76 da polizia e paramilitari fascisti durante una protesta contro il ritorno nel Paese del dittatore Kraivichien. Lo stesso giorno i militari prenderanno il potere, centinaia di morti, rpressione brutale (come oggi Erdogan in Truchia). Ma il suo racconto – e il senso della sua presenza – è uguale a quello degli altre figure che si alternano sullo schermo. A cosa serve dunque la Storia le cui tracce non si compongono in nulla rimanendo solo una piccola patina simile alla muffa nel pacco di pane da toast?

Poi si respira di fronte alla polifonia del duetto poetico con cui Rita Azavedo Gomes attraversa la storia portoghese, dittatura e sentimento dell’esilio nella corrispondenza – Correspondencias il titolo, ne riparliamo – tra due grandi scrittori lusitani, l’esiliato Jorge de Sena e Sophia de Mello Breyner, che è anche una riflessione su come filmare la parola poetica.

Non è questione di soggetto (anche se l’ammiccamento abietto al soggetto «forte» di un film come Le ciel attedra e la sua presenza qui fanno riflettere) ma di indipendenza e di sguardo.
Cosa significa un’immagine «politica» oggi? Scomodare la Storia, ammiccare a un tema attuale (per me non sono «politici» i film sui migranti vittimizzati come cura alla cattiva coscienza) o produrre nell’immaginario fratture (anche micro) di spiazzamento, fastidio, pensiero? Roger Corman nella sala piena per la proiezione The Masque of the Red Death, film indigesto alla critica del tempo (1964) ricordava divertimento e sfide di quell’avventura. Scompigliare è politico ma di scompiglio le immagini qui ne creano pochissimo (quasi nulla) preoccupandosi più di rispondere a un gusto del tempo. A volte un po’ indigesto.