Firenze ai tempi della peste, un gruppo di ragazze decide di fuggire lontano, in una casa sulle colline, per sottrarsi alla morte che soffoca la città. E convince i ragazzi amati a seguirle. Ma è possibile allontanare l’immagine della morte, il dolore, il ricordo delle persone amate perdute, quel suono terribile dei carretti che portava via i corpi irriconoscibili di giovani e anziani spaventoso come il bacio mortale di un appestato? Vivere appare assurdo anche se si possiede l’arma preziosa della giovinezza. C’è chi non ce la fa, e si getta nel vuoto, loro ci provano e per combattere angoscia e fantasmi si affidano al racconto: saranno delle storie, ogni giorno dette da uno di loro, la regola per tenere insieme quella piccola comunità in cui personaggi e vicissitudini fuori dal tempo, ma che nei loro pensieri declinano il proprio, si intrecciano ai sentimenti e alle esistenze dei giovani narratori.

Si parla di amori sempre assoluti, talvolta felici, spesso ragione di sofferenza; di scherzi cattivi, di furbi e di «grulli», di tradimenti feroci, di malattie mortali e di piaceri sfacciati e intanto l’estate luminosa di quella campagna con le sue notti di luna sembra guarire la loro anima.

Del Decameron Paolo e Vittorio Taviani mantengono dunque l’incastro di piani narrativi, la cornice dei «novellatori» dove si srotolano le storie di cui i due registi mescolano l’ordine originale scegliendone cinque sulle cento dell’opera. Conosciamo così Ghismunda (Kasia Smuniak) uccisa dalla possessività del padre (Lello Arena); Federico degli Alberghi (Josafat Vagni) che perde tutto, anche l’adorato falcone perché innamorato invano di Giovanna (Jasmine Trinca). Calandrino vittima di beffe terribili (Kim Rossi Stuart), Catalina (Vittoria Puccini) che solo l’ostinazione amorosa di Gentile Carisendi (Riccardo Scamarcio) salva dalla tomba a cui l’aveva condannata il marito prima ancora che morisse per paura del contagio. E la badessa che mentre punisce la monaca Isabetta (Carolina Crescentini) per avere peccato rivela essere sé stessa (Patrizia Cortellesi) «rea femmina» invitando anche le altre monache a soddisfare i loro desideri. Ma poco importa la «fedeltà» al testo, non è quello che si cerca quanto la sua lettura, la sua interpretazione: perchè Boccaccio anzi il Maraviglioso Boccaccio ora?

La tentazione era lì da anni, hanno raccontato i due registi, per loro toscani la lingua e l’universo di Boccaccio è qualcosa di familiare, un’eco che li accompagna sin dall’infanzia. Così come i luoghi in cui ambientano il film, la Toscana, che appartiene a altri loro lavori – in certe notti boccaccesche appare il profumo estivo della Notte di San Lorenzo. Ma soprattutto a spingerli è stata la convizione che Boccaccio offre preziosi spunti con cui ragionare sui nostri tempi.

Nel precedente e molto bello Cesare deve morire i Taviani si erano affidati a Shakespeare la cui attualità politica e umana si realizzava nel teatro dei detenuti, e soprattutto nella continua oscillazione tra il testo e la vita, tra la dimensione «reale» e la messinscena. La ricerca di una parola che evochi una «memoria» collettiva dell’umanità appartiene anche a questo film che dichiara la sua «teatralità» nei tagli di luce (di Simone Zampagni), nella composizione delle inquadrature in cui si evoca la pittura del Trecento – col rischio patinato che ha ormai l’iconografia della campagna toscana di verdi brillanti e grano e lini bianchi – e soprattutto nella struttura narrativa affidata a un coro e dei personaggi.

E qui c’è il primo problema. Gli attori giovani, i narratori, sono bravi, belli, con una freschezza che riempie il movimento dei quadri in cui sono «rinchiusi» – tra tutti si segnalano Fabrizio Falco e Rosabell Laurenti Sellers, quest’ultima vero talento, cresciuta in miniserie tv anche tremende (tipo Paura d’amare) è un’attrice che sa trovare per ogni personaggio i giusti toni – la ricordiamo in Gli equilibristi di De Matteo, ora è nel cast della quinta stagione di Trono di spade. Invece gli attori noti protagonisti delle novelle appaiono quasi tutti totalmente inadeguati. Non li aiuta la «traduzione» rigida della novella , di cui le immagini sembrano un po’ l’illustrazione senza che se ne provochi il senso, lo spirito, le gamme emozionali. Senza impennate né punti di fuga, senza provare a cogliere quello spirito eretico e politico che pure scorre con forza nel Decameron (e non cerchiamo il confronto, anche se è difficile, col Decameron di Pasolini).

Non c’è eros in questo Boccaccio, e nemmeno troppo sberleffo, non c’è commedia anche quando appartiene al racconto – Paola Cortellesi come badessa con i mutandoni in testa è abbastanza scoraggiante – né cattiveria o ambiguità mentre si fa fatica anche a cogliere la funzione del raccontare, e insieme a essa il punto in cui si riflette il nostro tempo. Unico accenno appare la grande paura dei giovani – e la precarietà della vita – nella metafora (appunto) della peste, che rimane però molto in superficie, talmente sussurrata da disperdersi, da lasciare a chi guarda l’impressione di un vuoto, di un narrare senza potenza in cui Boccaccio, l’invenzione del racconto, la potenza suggestiva della parola sbiadiscono , e francamente se ne fa fatica a cogliere la «maraviglia».