«La sensazione della perdita si affacciava senza preavviso nel mio mondo peraltro sereno, aleggiava su di me, stendeva le sue ali, e io mi sentivo priva di aria e di luce, per una mancanza che forse non esisteva affatto». Come in una sorta di viaggio iniziatico, Katja Petrowskaja ci guida con Forse Esther (Adelphi, pp. 242, euro 18,00) attraverso il mondo perduto dell’ebraismo dell’Europa centro-orientale, dandoci contemporaneamente conto di quella personale ricerca di una consapevolezza che è anche misura delle ferite che la storia ha inferto non solo alla sua memoria famigliare, ma anche a quella dell’umanità intera.

Cercando di ricomporre il proprio albero genealogico, dopo aver preso atto che «non solo le persone erano scomparse, ma non era quasi rimasta traccia della loro esistenza», la scrittrice e giornalista ucraina ripercorre da Vienna a Varsavia e da Odessa a Kiev, dall’impero asburgico a quello russo prima e sovietico poi, dagli shtetl della campagna polacca fino alla Mosca della rivoluzione bolscevica, l’epopea di una famiglia di ebrei che finiranno per abbracciare la causa dell’uomo nuovo sovietico e che, dopo essere stati inseguiti dalle persecuzioni, dai pogrom, dai treni piombati della Soluzione finale, conosceranno la repressione staliniana e il tentativo di annichilimento culturale imposto a tutti i «popoli fratelli» dell’Urss.

Katja-Petrowskaja
Romanzo documentario, sospeso tra lirismo e reportage narrativo, grazie a una lingua potente che riesce a rendere delicati, e a tratti addirittura buffi, perfino i momenti più claustrofobici, Forse Esther attinge a un ampio materiale, colmando soprattutto dei vuoti, dando nomi e volti a un orrore divenuto ancora più insopportabile proprio perché privo di identità: Esther era, ma solo probabilmente visto che al riguardo non c’erano ricordi precisi in famiglia, il nome della bisnonna di Petrowskaja che, alla fine di settembre del 1941, andò incontro alla morte a Babij Jar, nella periferia di Kiev, dove nazisti e collaborazionisti ucraini massacrarono in due giorni oltre trentatremila ebrei.

«Hitler ha ucciso i lettori e Stalin gli scrittori». Lei spiega come suo padre sintetizzasse così la scomparsa dello yiddish che prima della Seconda guerra mondiale era parlato da milioni di persone in Europa. Il suo è stato soprattutto un viaggio nella memoria e nell’identità perduta dell’ebraismo europeo?
Mi sento senza radici e attraverso questo libro ho cercato di conoscere la mia parte ebraica che era andata in gran parte perduta nel corso del tempo, ma alla fine del viaggio mi sono resa conto di esserci riuscita solo in minima parte e, soprattutto, che forse non era poi così importante. L’identità non è necessariamente quello che cerchiamo, ma la ricerca in se stessa, ciò che ci muove. Spesso quando mi invitano in qualche radio o tv a parlare del mio libro mettono in sottofondo delle canzoni yiddish; solo che io non le conosco. Mentre scrivevo ad accompagnarmi c’era la musica di Bach. Dico questo per far capire come le storie delle nostre famiglie che sono state delle storie ebree fino a una certa epoca, non lo sono state più da un determinato momento in poi. Non c’è stata solo la guerra, le persecuzioni e l’Olocausto, ma anche il fatto che in Unione Sovietica dell’identità e della cultura ebraica si era persa progressivamente ogni traccia una o due generazioni dopo la Seconda guerra mondiale. Gli ebrei sovietici erano spinti ad abbandonare la loro cultura precedente così come le loro tradizioni religiose. Nessuno a casa mia conosceva più l’yiddish e solo mia nonna paterna lo comprendeva ancora un po’. Il tutto, in un ambiente dove le istituzioni impedivano concretamente che si alimentasse in qualunque modo la memoria della Shoah – all’epoca i morti del periodo della guerra dovevano essere soltanto «sovietici» – fino ad arrivare a vietare le commemorazioni di Babij Jar. Molti in Europa non capiscono cosa ha rappresentato l’ambiente in cui sono cresciuta: quella tipica intelligentzia sovietica che credeva alla forza della parola più degli ebrei stessi e ai valori morali più dei protestanti: persone animate da una vocazione. Non saprei dire se tutto ciò aveva un qualche rapporto con l’ebraismo, non conoscevano la lingua, non praticavano la religione, ma c’erano comunque questi valori.

Mano a mano che procede la sua ricerca, si rafforza la sensazione della compresenza degli scomparsi; fino a rivivere in prima persona la corsa di sua nonna Rosa per non perdere il treno degli sfollati che nell’estate del 1941 portava in salvo da Kiev, minacciata dai nazisti, ciò che restava della sua famiglia. Questo passato non è davvero passato?
Sono cresciuta in una famiglia che ha sempre avuto un forte senso della storia e una coscienza acuta, forse addirittura esagerata, dei fatti del mondo. Ed è qualcosa che quando sei bambina non riesci quasi a sopportare. Mia madre ha insegnato per tutta la vita storia in una delle scuole più antiche del centro di Kiev e ha formato centinaia di ragazzini nel modo migliore; misurarmi con questo suo ruolo, anche a casa, è stato spesso difficile. Le vicende del passato mi hanno accompagnata, non come se io fossi venuta dopo, ma come se fossero compresenti nella mia vita di tutti i giorni. Per me, da che ricordo, non è esistito soltanto ciò che avveniva in famiglia, a scuola, tra i miei amici… Ancora oggi posso affermare che la battaglia di Waterloo o la Seconda guerra mondiale sono «il mio sangue», mi appartengono. Sin dall’inizio, i miei genitori non hanno fatto altro che parlarci di guerra, di morte, di morti stranieri, estranei, che noi non conoscevamo. Quest’anno mia madre mi ha raccontato dell’effetto che le aveva fatto l’entrata dei carri armati sovietici a Praga nel 1968 e di come, in seguito a quei fatti, lei fosse stata male, avesse attraversato uno stato emotivo drammatico per molti mesi. Per lei quanto accaduto significava che «noi» avevamo attaccato delle persone libere, «noi» ci eravamo opposti alla volontà di qualcuno che lei sentiva prossimo, anche se si trattava in realtà di completi estranei. Tutto ciò mi ha insegnato che «ogni cosa accade adesso» e che non si può attraversare il mondo, e la storia, cercando di uscirne indenni.

Malgrado sia arrivata a Berlino quando aveva già trent’anni e abbia imparato il tedesco solo allora, lei spiega di aver voluto scrivere questo libro proprio in quella che definisce come «la lingua del nemico», facendo di questa scelta uno degli elementi centrali dell’intera opera. Perché?
Questa scelta rappresenta senza dubbio la cosa più importante del libro. Volevo parlare liberamente questa lingua, o meglio, «assolverla». Quando sono arrivata a Berlino, alla fine degli anni Novanta, praticamente non conoscevo il tedesco. Poi mi sono innamorata di questa città straordinaria e il tedesco è diventata necessariamente la lingua franca con cui comunicare con gli amici, stranieri come me in quella metropoli. In realtà io continuo a pensare in russo, sento i suoni in russo, mi muovo ancora intorno alla lingua con cui sono cresciuta. Perciò quando ho deciso di scrivere il libro direttamente in tedesco, ho scelto di misurarmi con il tema della «perdita» non solo in riferimento alla storia della mia famiglia, ma anche nei termini della perdita della lingua, al punto che ci sono state molte cose che non sono riuscita a rendere in questa lingua che ancora oggi maneggio come fossi solo un’adolescente. In qualche modo, volevo provare a considerare le parole come fossero esseri viventi.
Credo di poter dire che il mio è un libro sulla potenza delle parole. Se lo avessi scritto in russo avrei in qualche modo «rivendicato» il discorso ufficiale sulla vittoria nella Seconda guerra mondiale che si è imposto fino a oggi nell’ex Unione sovietica o avrei, contemporaneamente, affermato di far parte del popolo vittima di quella guerra. Ma io non sono una vittima e ho cercato di assolvere me stessa e di liberarmi da questo tipo di discorso. E stranamente l’ho potuto fare soltanto attraverso la lingua tedesca. Inoltre, utilizzando il tedesco, che nelle lingue slave ha la stessa radice etimologica del termine muto – per russi e ucraini i tedeschi sono «muti» dal punto di vista linguistico -, è come se avessi voluto portare avanti attraverso una metafora la lunga tradizione di insegnamento ai sordomuti che c’è stata per generazioni nella mia famiglia e di cui parlo nel libro: io ho dato voce a quei muti!

Nel suo tentativo di ricostruire un albero di famiglia andato smarrito, lei non si limita però soltanto a utilizzare la lingua dell’«altro», addirittura del «nemico», ma sembra convinta che solo comprendendo questa alterità nelle proprie radici si possa giungere a risultati positivi. Come spiega a proposito del rapporto con i polacchi, ereditato da suo padre, basato sulle scuse per le responsabilità dell’Urss nella spartizione del paese con i nazisti, piuttosto che sul risentimento per l’antisemitismo che vi era diffuso sia durante l’Olocausto che nel secondo dopoguerra.

Io non avevo pretese filosofiche, ma ora posso dire che si tratta soprattutto di un libro sugli altri, sul prossimo. Volevo dedicarlo addirittura ai vicini di casa, che è poi il titolo di un importante libro polacco che racconta di un pogrom avvenuto durante la guerra nel paese e che malgrado sia stato a lungo attribuito ai tedeschi, fu invece compiuto proprio dai vicini non ebrei di quelle persone. Ci sono sempre gli altri, ma le persone vorrebbero potersi identificare con le vittime, o, nella versione tedesca, con i colpevoli. Ma se noi ci areniamo in questo gioco delle parti, non esiste dialogo. Un conto sono le ricostruzioni storiche e l’attribuzione di precise responsabilità, un altro il fatto che a partire da questa consapevolezza si debba guardare all’umanità intera, al suo futuro. Mentre scrivevo, mi sono naturalmente identificata con le vittime ebraiche della guerra e dello sterminio, ma non mi sono nemmeno mai scordata delle mie diverse identità che fanno di me anche un colpevole – molti ucraini parteciparono attivamente allo sterminio, a cominciare da Babij Jar e l’Armata Rossa nel 1944 attese sulle rive della Vistola che l’insurrezione di Varsavia venisse soffocata dai tedeschi. Neppure io posso pensarmi del tutto innocente.

«Forse Esther» muove da un doloroso senso di perdita e dalla ricerca di risposte: dove l’ha condotta questo viaggio?
Ora posso definire la mia meta. All’inizio si è trattato più che altro di un’intuizione. Non avevo un programma preciso: fare questo o quest’altro. Spesso i tedeschi mi pongono una domanda: «Ma ora si sente meglio?». La risposta è «No». Non ho scritto questo libro per sentirmi meglio, non si è trattato di un percorso terapeutico, né di un tentativo ispirato alla religione o a qualche sistema filosofico per spiegare come affrontare o elaborare situazioni come quelle descritte, come misurarsi con simili catastrofi. Averlo scritto mi aiuta a guardare meglio e a cercare di capire anche tutte queste cose, ma si è trattato prima di tutto di un tentativo molto privato: elaborare un rituale, una «passione» per dirla con Bach. Una donna che aveva letto il libro una volta mi ha detto che le è apparso come una sorta di kaddish: la preghiera ebraica dei morti. Ma io sono così poco addentro nelle cose dell’ebraismo che non l’avrei mai capito e nemmeno pensato da sola.