Grazie all’iniziativa congiunta del Kunsthaus di Zurigo e del MoMA di New York un secondo importante risultato è stato conseguito in occasione del centenario della nascita di Dada: si tratta della retrospettiva su Francis Picabia, curata da Cathérine Hug e Anne Umland, titolo Our heads are round so our thoughts can change direction (Le nostre teste sono circolari così i nostri pensieri possono cambiare direzione), che segue Dadaglobe Reconstructed, la «ricostruzione» dell’opus magnum del dadaismo che Tristan Tzara non riuscì mai a pubblicare. Con Picabia prosegue dunque lo scavo critico nell’universo Dada e collateralmente nelle avanguardie artistiche che l’artista, di padre cubano e madre francese, attraversa da protagonista.

Personalità difficile e controversa, Picabia utilizza molteplici linguaggi per la sua pittura e diversi medium per la sua azione estetica. È poeta e scrittore perché «poesia e creazione sono una sola cosa», editore e illustratore, critico e attore-performer protagonista con Erik Satie e i Ballets Suédois del film Entr’acte di René Claire e dello spettacolo Relâche. «La carriera di Picabia – dirà Duchamp – è una serie caleidoscopica di esperienze artistiche». «Io sono il poeta della mia vita», dichiarò pochi mesi prima di morire. A scorrere la biografia, ricostruita con precisione in catalogo da Rachel Silveri, dalla nascita, nel 1879, alla morte, entrambe a Parigi, è un susseguirsi di incontri mondani e artistici, viaggi e lunghi soggiorni, esibizioni, galà e feste dove sfoga la sua passione per yacht, auto e casinò: un globetrotter con una filosofia di vita disposta al puro edonismo. «Pittore avventuriero?», domanderà di se stesso. Certo joie de vivre e attrazione per l’«avventura» artistica sono in lui sempre collegate, rappresentano la reazione «a un mondo piatto» da condannare e combattere: la sua rivolta estetica – dichiarerà – è mossa «dalla noia» causata «dallo spettacolo di quadri che sembrano come congelati in superfici immobili». Siamo nel 1930 quando Picabia esterna questi giudizi. Già si è compiuta (1908) la svolta che l’ha condotto a essere un artista non più figurativo dopo un successo decennale di pittura post-impressionista.

Nella prima monografia a lui dedicata da Edouard André, è salutato tra i maestri che «infondono nuovo sangue nella scuola francese di paesaggio», ma lui ha già fatto tabula rasa della pittura en plein air. Quanto sia stato un talento nel dipingere alla maniera di Sisley, Monet, Pissarro, di Derain o Jawlensky lo dimostrano le tele che sono esposte all’inizio del percorso espositivo. In apparenza sembrano plagi, ma come notò Louis Vauxcelles non si tratta di copie ma solo di dipinti «similari». Picabia infatti ha una tecnica individuale inconfondibile. Il suo modo «fraudolento» di far derivare forme e temi dai lavori di altri affinché questi prendano altri significati, non è solo un personale espediente ma è la norma del modernismo stesso (Hughes). Rifiutata con rapidità la figurazione, Picabia trova nuove possibilità espressive nel Cubismo. La conoscenza diretta delle tele di Cézanne, che considera se non il precursore l’ispiratore di Picasso, sono il tramite del suo avvicinamento alla poetica dell’artista spagnolo. In La Processione, Siviglia (1912) lo ispirano i paesaggi dipinti da Picasso a Horta de Ebro nel ’09. Sono queste, tra astrazione e illusionismo, le tele «controverse» (Rosalind Krauss) che studia per riuscire a comprendere nell’astrattismo qual è «il processo attraverso il quale il corpo può passare», ora che sembra definitivamente svanito.

La questione della centralità del corpo è condivisa con l’amico Duchamp che con Jeune homme triste dans un train (1911) ne dà per primo una soluzione. Picabia però ha altro in mente. La pittura per lui deve esigere che «l’oggetto che mostra non esista come rappresentazione». La corporalità, quindi, non può prescindere dal mistero e dalla metafora, celate sotto le molteplici combinazioni di «geometrie torturate e di un eccessivo spostamento di piani figurativi nello spazio» (George Baker).

L’evoluzione del cubismo orfico, da Figure Triste (’12) a Je revois en souvenir ma chère Udnie (’14) passando per Catch as Catch Can e Udnie (’13), ci introduce alla sezione centrale della mostra: «Meccanomorfie e Dada». Dada è il rifugio transitorio che Picabia sceglie per sfuggire alle etichette. Così nel ’15 abbandona l’astrattismo e prosegue il sodalizio con Duchamp al quale, qualche anno prima, partecipa anche Apollinaire. Picabia finanzia al poeta I pittori cubisti, riceve in cambio il consiglio di «affrontare risolutamente il soggetto (poesia) che è l’essenza delle arti plastiche». Apollinaire ha compreso il richiamo che a Picabia dà la vita e gli associa il motto di Poussin: «La pittura non ha altro scopo che il piacere e la gioia degli occhi». Ironia, allegria e gusto per la libertà e la provocazione sono gli elementi che saldano il legame. Dentro la loro amicizia s’incontrano arte e invenzioni linguistiche e così prende forma la «nuova arte», alternativa e irriverente verso tutti gli «ismi». Apollinare fa conoscere alla coppia Duchamp-Picabia il teatro dell’assurdo di Raymond Roussel (Impressions d’Afrique), paradossale alla pari di quello di Alfred Jarry (Docteur Faustroll): fonti inesauribili d’ispirazione quanto lo sono le scoperte della quarta dimensione e la trascendenza della materia annunciate dalla scienza che già anticipa il mondo dell’invisibile con la scoperta dei raggi X. È da questo ammasso di suggestioni che matura in entrambi gli artisti l’idea di un’arte «oggettiva» estranea a qualunque movimento artistico.

Il disegno tecnico si presta a questo scopo ed ecco comparire la serie degli «oggetti teorici» (Krauss) meccanomorfi. Duchamp ne darà prova iniziando a lavorare nel 1915 alla Mariée mise à nu par ses célibataires, detto il Grande Vetro, Picabia, potremmo dire in parallelo, interviene con la serie delle «espressioni meccaniche» estratte dalle immagini delle riviste tecniche e accompagnate da didascalie tratte dal Petite Larousse (peccato che in mostra e in catalogo questa e altre connessioni siano trascurate). Il cambio di paradigma avviene a New York tra il ’15 e il ’16. Picabia vi ripara esule per sfuggire alla guerra insieme alla moglie Gabrielle Buffet e ai tre figli. La fuga proseguirà a Barcellona e di nuovo nella metropoli statunitense nel ’17, per giungere infine in Svizzera nel ’19. L’artista risiederà sul lago di Ginevra per curarsi dalla depressione, ma è l’occasione per incontrare di persona a Zurigo Tristan Tzara al quale già inviava i suoi scritti e disegni per la rivista «Dada». I due decidono di unire le forze, di far convergere anche «391» – il foglio edito da Picabia e ispirato alla rivista newyorkese «291» di Alfred Stieglitz e Marius de Zayas, – nel circuito di «Dada» e di aprire un nucleo del gruppo a Parigi.

Qui a Zurigo ci sono diverse opere capitali del periodo: s’inizia dalle illustrazioni meccanomorfe per «291», 1915 (Ici, c’est ici Stieglitz e Voilà Haviland) per proseguire con quelle di «391» di due anni dopo. Tra manifesti, bollettini e collage dadaisti c’è il ritratto di Apollinare, sotto forma di una pompa, mentre quello di Marie Laurencin, è una ventola sospesa con ingranaggi, e poi Révérence, Machine sans nom, Voilà la femme, Paroxyme de la douleur, tutte del ’15, per chiudere con «il ritratto dell’olio di ricino» M’Amenez-y (1919-’20) e la cornice dorata che contiene un incrocio di corde Danse de Saint-Guy.

Nel ’21 Picabia lascia anche il simbolismo meccanico e i dadaisti. «Dada, vedete, non era serio – scriverà in una nota per Comoedia –, è per questo che ha conquistato il mondo; se qualcuno ora lo prende sul serio, è perché è morto». L’avventura dell’artista prosegue all’insegna della scherno e della provocazione. Picabia si scaglia sia contro la retorica dell’astrattismo, sia contro la pittura accademica che definisce pudibonda. Alla Galleria Dalmau di Barcellona espone accanto ai disegni meccanomorfi i ritratti in costume di donne spagnole: è l’inizio della sua reazione a quel «ritorno all’ordine» che per lui significa abdicazione dell’arte alla fotografia e al cinema. Incomincia con il parodiare Ingres per deridere l’accademia (oltre le Espagnole, Nuit Espagnole, 1922), ma anche il Picasso del periodo classico. Al sole della Costa Azzurra dalla metà degli anni venti esegue grandi e ironici collage e la serie grottesca dei Mostri, coppie carnevalesche (Mardi Gras, Mi-Carême) coloratissime, un bombardamento di frenesia creativa che Breton leggerà come forme esorciste verso l’immane tragedia che si annuncia. Le tele dipinte durante la II Guerra Mondiale, etichettate erroneamente come antimoderniste o postmoderne, intonate a un classicismo esasperato e stucchevole, sottendono le stesse intenzioni dei Mostri o dell’altra serie delle Trasparenze: comporre una derisoria mise en abyme che consiste, secondo una definizione che diede Gide, in un lavoro su immagini per fare altre immagini. Picabia sfoglia «Paris Sex Appeal» per il nudo Femme au châle vert (1940), sceglie una fotografia di Blumenfeld per L’Adoration du veau (’41); un’altra, erotica, da «Mon Paris», per la Femme à l’idole (’40-’43) – locandina della mostra. Tutti dipinti oleografici, in apparenza tradizionali ma nella loro ambiguità, beffardi della società e della cultura dell’epoca.

La retrospettiva si chiude con un nutrito numero di illustrazioni e olii degli anni cinquanta. Ritornato nel ’45 a Parigi, insieme alla seconda moglie Olga Mohler e dopo essere stato accusato di collaborazionismo, Picabia compone una serie di dipinti che sono una nuova sfida alle convenzioni nel segno di quel suo movimento perpetuo che ha sempre condannato la fissità. Dipinge soggetti misteriosi, dalle forme organiche, in bilico tra astrazione e figurazione (Egoisme, ’47-’50) e una serie di tele in cui su fondi materici e monocromi arrotonda pochi cerchi (La Terre est ronde/ K.O., 1951): ultimi gesti prima del declino fisico a causa dell’arteriosclerosi. Il critico Michel Seuphor si domandò: «non è giunto il tempo di mettere il punto finale a tale agitazione?». Piuttosto c’è da chiedersi se sia possibile immaginarli, quei punti, come elementi di quell’«infinito misterioso» nel quale Picabia intese sempre far vivere le sue creazioni proibendo loro «i costumi alla moda buoni per sfilare nei casinò della pittura».