Le guerre sono fatte di sangue e di parole, di macerie e di discorsi, di eventi e di raffigurazioni, di storie e di miti. Distinguere la materialità dei fatti dalla loro resa in termini d’immaginazione comune, tanto più quando tutto si è consumato, e per sempre, non è cosa facile: le due cose si alimentano vicendevolmente, così come la Grande guerra ha abbondantemente dimostrato. L’intervento in essa non è stato solo dei corpi, quelli delle decine di milioni di uomini che furono mobilitati e, in non poca parte, straziati, così come delle popolazioni civili che vissero un lunghissimo regime di coercizione, ma anche delle menti e, quindi delle fantasie.
L’immaginario collettivo ne risultò quindi definitivamente segnato. Prima di tutto perché la dimensione continentale dei combattimenti, la loro ossessiva ripetitività, il fatto che il conflitto debordasse da subito anche in altre regioni, diverse da quelle europee, oltre all’essere come una gigantesca spugna, che fagocitava combattenti da una grande parte del mondo, per la prima volta coniugò il termine «modernità» con apocalisse e barbarie generalizzata. Di fatto segnò per molti il passaggio dalla visione personalistica, localistica e circolare dell’esistenza ad una sua esperienza tellurica e nel medesimo tempo labirintica, fondata sullo stravolgimento dei sensi e della concezione di sé.

La «nazione condivisa»

Morirono i combattenti ma morì anche l’idea che lo sviluppo umano fosse il prodotto di un processo progressivo, verso il meglio. Poi perché, all’interno di uno scenario gigantesco e, nel medesimo tempo, angosciante, l’intervento degli apparati della comunicazione, dalla propaganda fino alle forme più suadenti, diffuse e incontrollabili dell’informazione collettiva, fu un fatto dirimente, che concorse a determinare aspetti degli stessi andamenti bellici.
Per più versi, la Prima guerra mondiale venne combattuta contemporaneamente su molteplici fronti, uno dei quali, di primaria grandezza, era quello della costruzione di un immaginario bellico condiviso. La stessa storiografia, a distanza di tempo dai fatti, nel ricostruirli non è sfuggita alle logiche sottese ad un impianto dove la necessità di garantire la coerenza ad una cornice ideologica preesistente ha frequentemente fatto premio su altri ordini di priorità.
Se non altro perché la memoria della guerra italiana del 1915-1918 scontò da subito il sequestro che di essa ne avevano fatto prima il nazionalismo e quindi il regime fascista (il conflitto della «nazione proletaria», la «trincerocrazia», la «vittoria mutilata»), per poi subire la versione consensualista dominante nella prima stagione repubblicana (dove tornavano i temi della cosiddetta «quarta guerra d’indipendenza», del lascito risorgimentale e della concordia nazionale). Apologie che sarebbero state messe infine in scacco dalla ricerca storica nata negli anni della contestazione, basata sul ribaltamento dei precedenti paradigmi e sulla costruzione di una contronarrazione, orientata dal punto di vista delle classi subalterne, tanto efficace quanto non priva di ingenuità e semplificazioni.
Di queste stagioni ideologiche, depositarie, sia pure a distanza di decenni, e ognuna a suo modo, di diverse mitologie, certune belliciste altre pacifiste, che si erano accompagnate ai combattimenti stessi e che poi si sono ripetute nel corso del tempo, oggi, nella ricerca scientifica, non è forse rimasto molto. Come poco permane dello sguardo straniero sulla guerra italiana, sospeso tra superficiale giudizio nel merito della presunta marginalità del nostro teatro militare e pregiudizio preventivo sull’operato italiano.
Questioni, quelle storiche e storiografiche, che Marco Mondini, nel suo robusto studio su La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-1918 (il Mulino, Bologna 2014, pp. 458, euro 28), affronta di petto. In un volume che per la sua interna costruzione presenta molte analogie con la bella ricostruzione della lotta di Liberazione firmata una decina d’anni fa da Santo Peli con La Resistenza in Italia. Mondini, docente di storia contemporanea a Padova, ricercatore presso l’Istituto storico italo-germanico di Trento e studioso del fenomeno bellico e del suo impatto sugli equilibri politici come sulla società civile, da tempo si cimenta con questi ordini di problemi.
Partendo dai repertori, falsati e fuorvianti, di una guerra a lungo consegnata ai paesaggi bucolici – quelli delle montagne – , ossia ad «uno sguardo turistico sugli eventi», così come ad una debordante retorica del «sacrificio», due immagini per nulla antitetiche, anzi per più aspetti complementari, il volume destruttura e poi ricostruisce la complessa macchina della mitologia bellica italiana attraverso il rapporto tra narrazione in presa diretta, nelle sue infinite forme (diari, resoconti ufficiali, documentazione individuale, testimonianze), e riscontri fattuali. Nel presupposto che l’una, la narrazione, e l’altra, il dato oggettivo, siano spesso inestricabili poiché intrecciati. Il punto di incontro è la questione capitale della costruzione del consenso di massa, allora come oggi, intorno a imprese che per la loro durata, per l’impegno e le risorse richieste, non avrebbero avuto seguito se non avessero ottenuto un qualche assenso di quella parte della collettività che da subito fu chiamata a sopportarne il peso e gli effetti concreti.
La guerra esordì non come fatto ineluttabile bensì in quanto opportunità partecipativa. Che poi si sia trasformata ben presto in un dispositivo esasperante, un giogo mortuario, nulla toglie all’aspetto che di essa fu da molti accolto, quello dell’occasione di cambiare le carte in tavola, rompendo gli equilibri «borghesi». Il minuzioso lavoro di Mondini diventa quindi anche incursione nell’osceno di massa. Ovvero, nei criteri, nei modi, nei passaggi, nei transiti, negli stessi interstizi che disintegrano la divisione tra il privato delle individualità e il pubblico della mobilitazione collettiva. Laddove l’oscenità indica soprattutto l’esaltazione, attraverso la martirologia, del corpo come campo stesso della battaglia, che porta su di sé i segni del coraggio come della rovina, dell’eroismo come della paura, della immedesimazione come del rigetto.

Dall’idea alla realtà

L’autore è molto distante sia dal «caporettismo» degli anni Settanta (quello che leggeva la guerra come mera sopraffazione ai danni delle classi subalterne da parte di un esercito guidato da generali sanguinari, felloni e infingardi) sia dal neopatriottismo oggi in voga, di cui l’attuale presidente della Repubblica ne è l’espressione più netta, che mischia retorici richiami all’Europa, il persistente monito sulla presunta incompiutezza dell’Italia come nazione e la deferenza obbligata nei confronti del «sacrificio» di un’intera generazione. Poiché l’uno e l’altro approccio sono parte integrante della stessa mitologia della guerra, che essa sia svolta in chiave apologetica o critica.
Nella Grande guerra l’Italia entrò, durante il 1915, avendo avuto il tempo per predisporsi, dopo che essa si era trasformata da conflitto di sfondamento e di movimentazione a confronto statico. Di fatto, la popolazione aveva potuto metabolizzarne una qualche idea, benché fosse molto lontana dalla concretezza del fronte, come invece poi sarebbe successo all’atto pratico. La guerra, ovvero la sua immagine traslata, celebrata come il Pantheon delle virtù, era peraltro parte integrante nella considerazione di sé di una parte della collettività nazionale quanto meno di quei gruppi emergenti che andavano affermandosi sulla scena sociale, politica e culturale.
Marcava non solo l’egemonia delle vecchie classi dirigenti ma anche il ruolo di un ceto medio che doveva prendere forma e che nell’esperienza bellica, prima idealizzata come avventura poi condivisa come condizione esistenziale, avrebbe trovato un vero e proprio calco antropologico. Ricondurla ad un semplice moto nazionalistico risulta quindi, per molti aspetti, riduttivo o comunque non sufficiente. L’immaginario di società fortemente polarizzate sul piano delle divisioni sociali, ancora lontane da un unificazione culturale e linguistica, che sarebbe sopravvenuta solo molti decenni dopo, anche grazie alla diffusione dei modelli di consumo, trovava allora nelle mitologie guerriere come nella retorica dell’atto dovuto, entrambe variamente declinate, una sorta di punto di coagulo e di sintesi.

Una rappresentazione collettiva

Il perimetro della «patria» corrispondeva quindi con quello del ricorso alle armi. Quest’ultimo, a sua volta, si identificava con la partecipazione ad uno sforzo collettivo che, nel rimando alla forza legittima e legale, perché espressione della politica di potenza dello Stato contro un qualche «nemico» esterno, raggiungeva il suo compimento. Il lascito napoleonico dell’esercito di coscritti, dove si era cittadini se si marciava a schiere compatte, aveva attraversato tutto l’Ottocento e si rifletteva ora, nella cognizione di se stessi come parte di una totalità.
L’emancipazione possibile non era quella che passava attraverso l’eguaglianza sociale ma per il tramite dell’uniformità di un esercito che avrebbe celebrato, sulla punta delle baionette, la «guerra liberatrice» e la «nazione redenta». La vera palingenesi sociale corrispondeva al lavacro di sangue, di cui il Risorgimento, in una sorta di falsa linea di continuità, costituiva ideologicamente la premessa. Da ciò, anche, la guerra come affare mediatico oltre che come evento materiale. Un dato, questo, che già nella campagna di Libia era venuto affermandosi, manipolando il rapporto tra fatti e raffigurazioni laddove i grandi gruppi editoriali avevano svolto un ruolo fondamentale nella mobilitazione degli «spiriti» collettivi.
Anche da questi aspetti emerge, quindi, il carattere di pedagogia di massa che la Grande guerra assunse ben presto, superando gli oramai angusti spazi della caserma. Il processo di nazionalizzazione delle masse in Italia trovò un polo volutamente debole nella scuola elementare obbligatoria ed uno invece forte nella mobilitazione collettiva che con il 1915 segnò una parte significativa della collettività. Che il fascismo ne avesse poi raccolto i frutti, portando a compimento, a modo suo, l’idea autoritaria della nazione, era quindi fatto non obbligato ma neanche così casuale. In una linea di continuità che sussiste a tutt’oggi, tra le pieghe di un comune sentire, che non riesce a concepire la cittadinanza se non in chiave di sudditanza.