È vero che non tutti gli uomini uccidono, che la cultura maschile da secoli non ha seminato solo morte, ma dato vita anche a opere sublimi di civiltà; è vero che l’amore, la solidarietà, il pacifismo non le sono estranei. Forse è per questo che esitiamo a nominare alcune verità.

La prima è che la violenza, dalle guerre tra Stati alle guerre civili dovute al fanatismo o a problemi sociali, alla persecuzione delle minoranze, è stata praticata dal sesso maschile, sia pure con l’aiuto e la complicità delle donne.

La seconda considerazione è che l’amore e l’odio, considerate pulsioni contrapposte, non si danno mai isolatamente, vincolate come sono l’una all’altra.

Ad Albert Einstein, che in una lettera del settembre 1932 gli chiedeva «metodi educativi», «modi di azione» per frenare la «fatalità della guerra», Freud rispondeva: «…la pulsione di autoconservazione è certamente erotica, ma ciò non toglie che debba ricorrere all’aggressività per compiere quanto si ripromette. Allo stesso modo la pulsione amorosa, rivolta ad oggetti, necessita di un quid della pulsione di appropriazione, se veramente vuole impadronirsi del suo oggetto. La difficoltà di isolare le due specie di pulsioni nelle loro manifestazioni ci ha impedito per tanto tempo di riconoscerle». (Freud, “Il disagio della civiltà e altri saggi”, Bollati Boringhieri 1987, p. 93).

Come è possibile che ancora oggi, dopo tanto parlare di patriarcato e di maschilismo, non si riesca a scalfire la maschera di neutralità che impedisce di riconoscere ai responsabili di tanti orrori l’appartenenza a un sesso? Che cosa impedisce agli uomini sinceramente convinti di dover operare per la pace nel mondo di interrogarsi sulla matrice “virile” della violenza? Perché, a loro volta, le donne sono così poco inclini a chiedersi quando e come un figlio, un marito, un amante passano dalla tenerezza alla violenza?

Può darsi che il rapporto di potere tra i sessi e le inevitabili complicità che ne hanno permesso una così lunga durata non siano, come sono portata a pensare, il maggiore ostacolo materiale e psicologico a una convivenza più umana, più giusta e solidale. Ma finché non vengono portati alla coscienza e fatti oggetto della riflessione che meritano, non sapremo mai se dobbiamo rassegnarci a una “naturale” violenza maschile, o sperare nella possibilità di un cambiamento che non riguarderebbe solo il sessismo, ma tutte le forme di distruzione e di morte che gli uomini hanno agìto contro i loro simili.

A questo punto arriva puntuale la domanda: «Allora le donne che uccidono cosa sono?». Che anche le donne abbiano pulsioni aggressive mi pare fuori di dubbio. Aggiungo anche che, se avessero avuto fin dall’inizio della storia umana la forza fisica, il possesso delle armi e tutto il potere che si è arrogato l’uomo, non è da escludere che avrebbero potuto farne un uso altrettanto selvaggio. Non ho mai pensato che l’esperienza della gravidanza e del parto potessero agire in modo deterministico su quelle che artificiosamente sono state considerate le “naturali” doti femminili di oblatività, dolcezza, altruismo. Gli infanticidi, la violenza sui bambini non sono purtroppo estranei alla maternità.

Sta di fatto che non è andata così e, che piaccia o meno, le guerre, le devastazioni, gli stupri privati e pubblici, gli stermini di interi popoli li ha fatti il sesso maschile. Dagli uomini che non si riconoscono in questa brutalità dei loro simili ci si aspetterebbe quanto meno che si ponessero il problema,ognuno a partire dalla propria esperienza , e che cominciassero a riflettere sulla cultura che loro –nostro- malgrado abbiamo ereditato.

Ma già il fatto che sorga così immediata un’obiezione che non trova fondamento in realtà lontane dal poter essere confrontate, è la prova che la denegazione è ancora il sentimento più diffuso al riguardo. Come spiegare altrimenti che in tanti incontri, convegni, dibattiti sulla violenza contro le donne, così come quando si parla di un’educazione a un rapporto diverso tra i sessi, gli uomini sono pressoché assenti, quasi fosse solo una “questione femminile”? Sono sempre state le vittime a testimoniare la violenza, questo è vero, ma qui stiamo parlando di un male che, nelle sue forme meno visibili e per questo più insidiose, si annida -come scrive Pierre Bourdieu nel suo libro “Il dominio maschile” (Feltrinelli 1998) – nelle istituzioni, nei poteri, nei saperi della vita pubblica e «nell’oscurità dei corpi», cioè nel sentire, ragionare e agire di ogni individuo, maschio o femmina.

Da dove cominciare a snidarlo? Ma, soprattutto, come fermare l’attenzione su un dominio così esteso e al medesimo tempo così sfuggente, che passa attraverso le più tenere cure dell’infanzia, le prime esperienze scolastiche, l’aria stessa che si respira negli interni delle case e per le vie della città, e che, ciò nonostante, si continua a considerarlo “privato”?

Eppure le tracce o gli antefatti di tanti orrori che sono passati e passano nella storia del mondo non sarebbero difficili da rintracciare. In un testo pedagogico che ha goduto di grande rinomanza fino a tempi non lontani – Erik H.Erikson, “Infanzia e società” (Armando Editore, Roma 1966)- gli attributi che differenzierebbero il comportamento femminile da quello maschile, la «staticità» e la «mobilità», sono definiti come «reminiscenze», «modi strettamente paralleli alla morfologia degli organi genitali». Il «fare sociale», che è dell’uomo – dice Erikson- , comporta «l’attacco, il piacere della competizione, l’esigenza della riuscita, la gioia della conquista», mentre quello della donna appare legato esclusivamente alla seduzione, al «desiderio di essere bella e di piacere», e alla «capacità di assecondare il ruolo procreativo del maschio», capacità che fa della donna una «compagna comprensiva e una madre sicura di sé».

Se «le virtù apparentemente naturali del maschio (forza, coraggio, sicurezza, onore, senso del comando e della superiorità)» –come si legge in un interessante saggio di Sandro Bellassai , “L’invenzione della virilità”, Carocci 2011- vengono amplificate fino a produrre forme di virilismo guerriero in determinati momenti storici, ed esasperate fino alla follia omicida, quando appaiono minacciate da una imprevista libertà delle donne, si può pensare che la ‘preistoria’ famigliare e sociale attraverso cui passa il bambino per diventare adulto non lasci il suo segno?

Portare allo scoperto tutto ciò che trattiene la memoria del corpo di quelle prime esperienze – configurazioni immaginarie, fantasie, schemi cognitivi, habitus mentali- presenti sia nella formazione del singolo che dei popoli, ci aiuterebbe a capire da dove nascono e come si trasmettono fenomeni duraturi come il sessismo, il razzismo, i nazionalismi, le guerre.