Non fosse per i treni che passano lenti dalla stazione di San Cristoforo, o per il tram 14 che prosegue in parallelo lungo il Naviglio, il Giambellino sembrerebbe quasi un mondo a parte. Lontano da Milano. Un mosaico di persone dalle tradizioni molto diverse finita per caso a vivere nella stessa palazzina e, sempre per caso, anche sulle pagine dei quotidiani dopo gli scontri con la polizia durante gli sgomberi degli alloggi occupati.

Negli anni è diventato uno degli storici quartieri operai della città, un mondo quasi a parte, piuttosto grigio, dimenticato, l’esatto contrario del centro con le sue vetrine lussuose. Un cassetto in cui Milano, lanciata a tappe forzate verso il «miracolo economico» dell’ Expo, può comodamente dimenticare tutti quei soggetti problematici che rappresentano più un fastidio che altro: anziani soli con pensioni minime, disoccupati perenni che sbarcano il lunario come possono, stranieri non ancora del tutto integrati e famiglie numerose di rom che forse mai del tutto si integreranno. Una situazione complicata da gestire che il Comune di Milano, finché ha potuto, ha volentieri affidato all’Aler (l’Azienda Lombarda per l’Edilizia Residenziale). E anche qui, l’Aler, come in tanti altri quartieri, ha scelto di favorire i propri interessi economici a danno della collettività lasciando che progressivamente il quartiere sprofondasse in uno stato di degrado e di abbandono. Tanto che alla morte di un inquilino, o alla sua recessione, spesso è più conveniente sbarrare le porte della sua abitazione, con servizi sanitari funzionanti e riscaldamento centralizzato, piuttosto che ristrutturarla ed assegnarla a qualcun altro. Si spiega anche così l’enorme numero di case popolari da lungo tempo sfitte.

In tanti sono scesi in strada nelle ultime settimane per manifestare contro la campagna di sgomberi lanciata dall’Aler: centinaia di persone, italiani, ma anche e soprattutto stranieri, talvolta irregolari, senza lavoro e senza prospettive. Come Mohammad, un iracheno di 53 anni giunto a Milano nell’88 da rifugiato politico, che per diversi anni ha lavorato all’Ansaldo-Breda. Poi è arrivata la crisi ed è rimasto per strada. Vive in un piccolo appartamento in via dei Sanniti che un conoscente tunisino gli ha subaffittato per 300 euro al mese ed intende continuare a viverci. «Fosse per me non occuperei mai, ma io sono solo, sono vecchio… Un uomo con moglie e bambini come fa? Li fa dormire per strada? È ovvio che se c’è una casa vuota viene occupata». E ancora: «Questi ragazzi – dice indicando con lo sguardo Martina, Andrea e gli altri giovani militanti ex Cuem che sono alla guida della protesta e che qui hanno dato vita alla Base di Solidarietà, occupando uno spazio Aler abbandonato – sono il futuro del quartiere. Qui le persone non escono più di casa, hanno paura di una realtà che sta cambiando velocemente. Loro rappresentano una possibilità di dialogo tra persone diverse, forse l’unica davvero possibile».

Una possibilità di convivenza tra persone che hanno le stesse difficoltà. È quella che ha trovato Pino, insieme alla compagna Anna, con gli anziani affittuari che abitano la scala B del suo stesso condominio. Sempre in via Giambellino. «Tanti non hanno parenti e da soli non riescono a provvedere a se stessi. Io cerco di dare una mano: vado a fargli la spesa, li accompagno in ospedale quando hanno bisogno, vado a ritirargli la pensione. E loro se possono aiutano me, magari passandomi qualche soldo quando il periodo è difficile… Io non ho mai avuto problemi e non ne ho mai nemmeno dati. Forse è per questo che sono qui da così tanto tempo e nessuno è mai venuto a cercarmi – dice parlando degli sgomberi del mese scorso – ma con i rom è diverso: vivono per i fatti loro, talvolta stanno in dieci nello stesso appartamento, abbandonano l’immondizia nel cortile. L’anziano li denuncia e poi la polizia viene a sfrattarli». Arrivato da Bari 16 anni fa per fare il muratore, anche Pino si è trovato presto senza soldi e senza un posto dove andare. Poi una sera alcuni amici gli hanno parlato di un alloggio vuoto, lui è venuto a dare un’occhiata, ha scavalcato il balcone e da quel giorno non se n’è più andato. Ogni mese l’Aler gli manda una bolletta (200 euro di servizi, 300 d’indennità per l’occupazione abusiva), lui ne paga 150 e conserva le ricevute. Se mai un giorno lo cacceranno, dice che chiederà indietro ogni centesimo.

Ma non tutti i proprietari e gli inquilini regolari la vedono allo stesso modo. Maura ogni pomeriggio si ritrova al bar Candy di via Odazio per passare qualche ora in chiacchiere con Giancarlo e Nicola, amici di una vita che vivono insieme al Giambellino fin dai primi anni ’50. «Poco per volta ci hanno invasi – sibila a denti stretti – vengono qui convinti che tutto gli sia dovuto, abbattono una porta e della gente che gli abita vicino chissenefrega. Io vado avanti con una pensione da 600 euro al mese, eppure pago regolarmente… E certo che tante case rimangono vuote, con che soldi l’Aler risistema gli alloggi se qui tutti occupano e nessuno paga? La casa è un diritto, ma è un diritto che ci si deve guadagnare». Giancarlo non ha posizioni così dure: «Sono contrario all’occupazione, ma posso capire le loro ragioni. L’Aler è sempre stata un’idrovora mangia soldi e non ha mai dato niente a nessuno. Nemmeno a noi che paghiamo puntuali e che da più di un anno chiediamo che vengano a metterci a posto il citofono. La Base di Solidarietà potrebbe anche essere qualcosa di buono, a patto però che questo spazio comune sia davvero di tutti e non solo di quelli dei movimenti di sinistra e dei loro amici abusivi».

Quella del Giambellino è una realtà difficile, le poche occasioni di confronto costruttivo spesso non vengono colte. Erigere nuovi e ancor più isolati quartieri periferici non serve. Pochi anni fa, vicino alla parrocchia del Santo Curato, è stato costruito un costoso complesso residenziale con grandi vetrate: gli alloggi sono ancora tutti vuoti e in attesa di assegnazione. Bisogna rivalorizzare ciò che c’è, salvando il quartiere dagli speculatori, magari prendendo spunto da quei rari esempi di solidarietà e mutua assistenza tra vicini (dal Giambellino passerà il braccio sud della M5, cosa che porterebbe a una rivalutazione degli immobili, comprese le logore palazzine Aler). Le persone fanno il quartiere, non le case. E forse proprio questo è il pensiero di molti abitanti del Giambellino che si stanno impegnando affinché «Il quartiere è di chi lo vive!» non sia più solo uno slogan. Con il tempo potrebbe diventare una realtà.