Nonostante ami le piante e i rumori inaspettati prodotti dagli animali, compreso il russare dei conigli nelle loro tane, Gilles Clément preferisce, fra tutti i paesaggi, quello desertico. Ne apprezza il silenzio infinito e probabilmente la sua indomabilità, quello sfuggire a regole e confini, eleggendo a suoi guardiani animali col vizio del nomadismo.

A confermare la posizione eccentrica nel mondo umanistico e delle scienze di questo versatile «giardiniere» c’è poi la sua attitudine allo scarto: sebbene sia ben piantato con i piedi per terra quando lavora tra arbusti, alberi e bulbi è solo dopo aver visto le immagini del nostro pianeta dalla luna che Clément ha cominciato a disegnare nella sua mente il Giardino Planetario. Brecht l’avrebbe chiamata tecnica di straniamento, qui è una presa di distanza poetica, uno scacco alla cultura antropocentrica che l’occidente si porta sulle spalle da secoli e secoli.
Inclassificabile, o meglio classificabile attraverso un elenco di professioni che si contaminano una con l’altra – filosofo, botanico, entomologo, paesaggista, docente presso l’École Nationale Supérieure du Paysage de Versailles – Gilles Clément è anche un magnifico scrittore, sia quando si innamora delle nuvole durante un viaggio dalla Francia al Brasile, sia quando parla delle geometrie e gli abissi dei cimiteri, lì dove «vige il desiderio di materializzare l’immateriale». O, ancora, è un narratore felice nelle sue dissertazioni malinconiche sui cani gialli, esseri reietti e marginali. A volte, poi, si perde nei sogni, tacciandoli di immensa solitudine perché mai condivisibili.

Il Parc André Citroën e il Musée du quai Branly, entrambi a Parigi, sono alcune delle sue più celebri realizzazioni. In Italia, invece, conosciamo il Jardin Mandala (2010), nato per la superficie verde del tetto pensile del torinese Parco d’Arte Vivente (Pav), un intervento che sposa l’impermanenza delle sabbie e si sviluppa sulla collina del «Bioma», il percorso interattivo concepito dall’artista Piero Gilardi.

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Tradotto in Italia soprattutto da Quodlibet (dal Manifesto del Terzo paesaggio nel 2005 fino all’ultimo, Ho costruito una casa da giardiniere) e da DeriveApprodi (Piccola pedagogia dell’erba, in libreria dal 16 marzo), Clément sarà a Roma domani, alle 12, ospite al festival Libri Come dell’Auditorium (un incontro in collaborazione con Institut français d’Italie e Ambassade de France en Italie). Nel Teatro Studio Borgna, interverrà sul tema Come un paesaggio. «Nessuna risposta arriva in un colpo solo. L’umanità incredula, volta per volta addormentata dai media o risvegliata dalla crisi, cerca nuove piste vitali su un terreno sconosciuto. Tutto è da reinventare», dice mentre si avventura su nuove strade ecologiche, mantenendo intatto lo stupore di fronte alle meraviglie della natura.

Luoghi dismessi e residuali, piccoli boschi urbani, sterpaglie e prati incolti che creano incroci di specie e stratificazioni della memoria «naturale». Il suo «Manifesto del Terzo Paesaggio» ha compiuto ormai dieci anni: oggi lo definirebbe ancora attuale?
Il Terzo Paesaggio non è che un frammento del Giardino Planetario. È la somma di spazi trascurati o mai sfruttati dall’uomo. Direi che oggi questo approccio sia più che mai di attualità. La presenza del Terzo Paesaggio crea un territorio di accoglienza per la diversità, peraltro cacciata altrove. Può essere considerato come un tesoro il cui valore va aumentando con il tempo proprio perché, purtroppo, il suo territorio di espressione, invece, diminuisce con il passare del tempo.

Il destino di ogni cosa vivente – persone, animali, piante – è la trasformazione. Il giardiniere, in quanto essere vivente, fa parte di questo processo e ha un ruolo attivo, è un trasmettitore di informazioni. Ma quali sono le informazioni che può «passare»?
Di fronte al paesaggio, può farsi ambasciatore solo di informazioni di tipo architettonico. L’informazione più importante che gli esseri umani possono trasmettere riguarda comunque la vita e non la forma. È con le altre specie che il canale di comunicazione deve rimanere aperto, non con qualcosa riconducibile a un’idea di décor. Si può entrare in dialogo con il «vivente», comprendere il suo sviluppo nel tempo e imparare a comportarsi in una continua relazione con esso, al fine di preservarlo. Per questo suo lavoro, il giardiniere ha bisogno degli scienziati.

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Cosa pensa dei giardini giapponesi, o di quelli di scuola manierista italiana? Sono luoghi in cui l’armonia nasce artificialmente e la trasformazione naturale è rigidamente sotto controllo…
I giardini sono l’emanazione di una cultura, non sono che un riflesso. Il loro messaggio è commisurato a quello che gli individui di una particolare cultura cercano di trasmettere ai propri coetanei e ai loro discendenti. I giapponesi perpetuano una tipologia di «paesaggio preso in prestito», di antica derivazione cinese, e idealizzano il paesaggio che hanno costruito artificialmente, mantenendolo nel tempo nella sua forma, con un intervento intensivo. È un modello persistente. Sebbene il Giardino in movimento sia stato recentemente tradotto in giapponese, dubito che potrà contribuire a un cambiamento nella composizione e, soprattutto, nella gestione degli spazi verdi. La metamorfosi di un modello culturale è immaginabile all’interno di un sistema di valori condivisi, per esempio in Europa, ma è molto più difficile tra culture lontane. È possibile però provare a concepire la manutenzione di un giardino giapponese in un modo che sia ecologico, senza necessariamente trasfigurare il suo aspetto né il suo valore simbolico.

A Bali (per fare un esempio) gli spazi del paesaggio artificiale – le zone coltivate – sono orientate verso un ideale nord, in direzione della montagna sacra degli dèi. Lei ha parlato più volte di invisibile e visibile rispetto ai giardini, configurando una sorta di cosmogonia interna. Può spiegare questo concetto?
La nostra concezione del mondo ha anche un impatto sul modo in cui ce ne occupiamo. E naturalmente si riflette anche sul giardino, che esprime una visione della vita. Al centro del giardino c’è sempre ciò che consideriamo migliore e più prezioso. Ma tutto cambia nelle relazioni fra culture e con lo scorrere del tempo. In Occidente si è passati da una visione classica, dove il trattamento formale della prospettiva rifletteva una certa idea di potere, a una visione romantica, dove la natura drammatizzata veniva osservata da «punti di vista». Approcci differenti per paesaggi diversi.

L’artista brasiliana Maria Thereza Alves, lavora da dieci anni al progetto «Seeds of Change». Il suo lavoro parte dall’idea che i terreni agricoli nei paesi industrializzati (e in via di sviluppo), siano in gran parte ricoperti da piante migrate all’interno o introdotte dall’esterno. Va nei principali porti e si concentra sulle zavorre: la terra usata come zavorra per ancorare le navi mercantili viene trasportata inavvertitamente nel mondo. I semi, così, possono germinare, cambiare il paesaggio e raccontare la storia della colonizzazione… Lo trova interessante?
Questo progetto evidenzia ciò che io chiamo il «melting pot globale», che raggruppa le specie precedentemente isolate le une dalle altre. All’interno del giardino globale, corrisponde a ciò che gli scienziati chiamano un «ecosistema emergente», cioè un insieme di esseri viventi con diverse origini geografiche che si riequilibrano gli uni con gli altri, entrando in relazione.

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Spesso, lei ha espresso la sua simpatia per l’animale errante, che vive in zone di confine, dimenticate… Quel vagabondo urbano è un po’ come una pianta randagia che riporta vitalità: esiste dunque un Terzo paesaggio animale?
Gli animali abitano tutti gli spazi, siano essi liberi o occupati dagli uomini. Ci accompagnano e accettano di viverci accanto quando anche noi decidiamo di dimorare sulla terra accanto a loro.

Per praticare la strada di una nuova ecologia, lei sostiene che si possa sperimentare un percorso alternativo, che non è il Green Business…
Il Green Business è qualcosa che mira alla mercificazione della natura. Può quindi soltanto accelerare la sua distruzione, conducendo a un crollo della biodiversità e creando un mercato della scarsità. L’alternativa economica a questo sistema c’è ed è quella di ricorrere a un uso del libero, che poi è insito nel «genio naturale». Bisogna contrastare ogni divieto di accesso al bene comune sotto la pressione di laboratori che privatizzano tutto con il pretesto dei brevetti. Il giardino del futuro si farà in collaborazione con gli scienziati, ma senza i laboratori.