Nel rimpasto del governo Renzi cambia assai poco oltre al presidente del Consiglio, che adesso è Paolo Gentiloni. I due custodi del «Giglio magico», Luca Lotti e Maria Elena Boschi, resistono nella tempesta. Lui ottiene una piccola promozione, più di forma che di sostanza, passando da sottosegretario alla presidenza del Consiglio a ministro senza portafoglio. Lei deve accettare uno spostamento di lato, lascia il ministero delle riforme (cancellato, come la riforma) ma non si allontana da palazzo Chigi. Perde un po’ di visibilità pubblica ma guadagna l’incarico più pesante tra i sottosegretari, quello di segretaria del Consiglio dei ministri (lo faceva Gianni Letta per Berlusconi). Le nomine passeranno anche da lei.

Boschi deve però mollare anche i rapporti con il parlamento (al suo posto Anna Finocchiaro, vedi pagina 5), Lotti invece ottiene la delega per lo sport. Da aggiungere a quelle per l’editoria e il Cipe, per quanto sia impercettibile il rapporto tra le materie. Non riesce invece a conquistare i servizi segreti, come avrebbe voluto Renzi, tant’è che la promozione a ministro pare una compensazione per questa rinuncia. I servizi però deve lasciarli anche Marco Minniti, che aveva la delega da sottosegretario ma che è più che compensato dalla poltrona principale del Viminale, attorno alla quale girava da un decennio.
Un passo in avanti anche per un altro ex dalemiano, Claudio De Vincenti. Era lui il sottosegretario di testa nel governo Renzi, era stato vice ministro, adesso è ministro a tutto tondo. Economista, starà dietro alla coesione territoriale e al mezzogiorno.

Pochissime le altre novità, tanto che a fare notizia sono soprattutto le conferme, anche di ministri e ministre che avevano fin qui collezionato soprattutto sconfitte e gaffe. Detto di Boschi, va detto che Marianna Madia resta titolare della pubblica amministrazione malgrado la sua riforma sia stata appena bocciata dalla Corte costituzionale. Restano anche il ministro dell’ambiente Galletti (in quanto «casiniano» e dunque specie protetta), la ministra della difesa Pinotti e persino la ministra della salute Lorenzin, dalla quale anche Renzi aveva dovuto prendere le distanze per la tragica campagna sul «fertility day». Potenza della lottizzazione e del partito di Alfano, che consolida la sua capacità di trasformare in (molte) poltrone i (pochi) voti.

Alfano stesso è uscito ancora una volta vincitore, il suo trasloco agli esteri può anche essere stato (come sostiene qualcuno) soprattutto un allontanamento dagli interni, ma certo esistono allontanamenti meno comodi. Arrivato alla Farnesina appena lasciata proprio dal presidente del Consiglio Gentiloni, il 46enne ex delfino di Berlusconi può così guardare dall’alto una carriera che è già più luminosa di quelle di Gava e Scotti: ministro della giustizia, vice presidente del consiglio, ministro dell’interno, adesso agli esteri.
E così l’unica penalizzata – in attesa del ballo dei sottosegretari – è la ministra dell’istruzione Stefania Giannini, anche perché dietro di lei non c’è più un partito alleato da accontentare (ovvero, non c’è più Scelta civica ma il Pd).Al suo posto la vice presidente del senato Valeria Fedeli, ex Cgil ma tanto ex che era alla Leopolda quando il sindacato nell’ottobre 2014 manifestava contro il Jobs act. A Fedeli Renzi è grato per non aver fatto una piega quando, da vice presidente vicaria del senato (Grasso sostituiva Napolitano), ammise il certamente irregolare emendamento Esposito, grazie al quale fu approvato l’Italicum. Ed eccola nel governo che deve rimediare all’Italicum.