L’invenzione del mondo:

Joao Pedro Rodrigues e Gianikian Ricci Lucchi

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Nel gioco della «classifica», i-film-dell’anno, che torna puntuale a ogni fine ho colpevolmente dimenticato – fretta, inadeguatezza della memoria – uno dei film più belli del 2015 appena passato: Inherent Vice, Vizio di forma di Paul Thomas Anderson, un regista che amo moltissimo sin dai primi suoi film. E da qui voglio partire per i miei desideri (di visioni) del 2016, perché quel film, rimosso anche dai grandi premi come l’Oscar (e quasi in modo scontato) esprime profondamente il senso di quello che mi piacerebbe vedere nell’anno che verrà. Film per un cinema irriverente, sensuale, libero, spudorato, anarchico, che non asseconda mode e superfici plasticose mascherate da sperimentalismo, che non cerca la lezioncina pomposa, che rifiuta l’autoritarismo (inchiodare lo spettatore con le spalle al muro) e che trascina invece emozione, dolcezza, ribellione, piacere. E soprattutto rischio di una meraviglia inattuale e non prevedibile. L’utopia di inventare il mondo. Per questo metto all’inizio della mia ideale e anche stavolta parzialissima «lista», O Ornitològo di Joao Pedro Rodrigues, il regista portoghese che riesce a mescolare sensualmente invenzione fiabesca, Storia, erotismo e attualità in magnifiche dichiarazioni di amore al cinema.
Sarà questo l’anno in cui vedremo il nuovo film di Clint Eastwood, Sully, ispirato a Chesley «Sully» Sullenberger, il pilota che con un atterraggio di fortuna sull’Hudson è riuscito a salvare tutti i suoi passeggeri. E quello di Martin Scorsese, Silence storia di due preti che cercano di diffondere il cristianesimo in Giappone. Due registi, Eastwood e Scorsese, che il rischio lo praticano a ogni film, e che soprattutto non cercano mai di compiacere le attese e la retorica.
Kelly Reichardt, di cui arriverà Certain Women, è una regista con la sensibilità speciale per avventurarsi nei paesaggi epici e nei sogni dell’America. Così come Todd Solondz che quei paesaggi li proietta nelle zone intime, segrete dei suoi personaggi, per il suo Wiener Dog (un cane bassotto) c’è poco da attendere: anteprima al Sundance.
Nel cortocircuito possibile del 2016, quel punto sfuggente sui bordi dei fotogrammi in cui indipendenza e grandi budget si incontrano in una ricerca (indipendente appunto) dello sguardo le categorie sfumano e il cinema declina le sue gamme migliori. Attendo il prossimo film di Frederick Wiseman già al lavoro dopo Jackson Heights, uno dei racconti più netti dell’America (e mondo) contemporanea senza appiattire mai una sola sequenza alle esigenze «obbligate» dell’attualità (eppure si parla di migranti e di diritto di cittadinanza).
A Lullaby to the Sorrowful Mystery di Lav Diaz ( lo scopriremo presto, alla prossima Berlinale) che nella rivendicazione di una voce alla prima persona degli immaginario coloniali diffusi nelle Filippine sembra ritrovare le esperienze più barocche e fiammeggianti del cinema delle «nuove onde», Rocha e Bressane e Sganzerla e Brocka che era riuscito a trasformare la lotta di classe in fiammeggianti melò.
Ritrovare nel 2016 la trama del nostro tempo presente negli archivi – ma saranno tali? – di Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian di nuovo al lavoro su un film «russo» nel quale raccolgono voci indomite, poesia e vita. Amir Naderi, iraniano, poi americano ha scelto i paesaggi dell’Alto Adige per Mountain. Un set in alta montagna dove è stato ricostruito un antico villaggio, per raccontare la storia di una sfida. Come è quella di ogni suo film.

(Cristina Piccino)

Inattuali e fuori orario:
Bertrand Bonello e Kelly Reichardt

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I più attesi sono quelli nati fuori orario: i film inattuali. Che vuol dire inattuale ? Non vuol dire in anticipo. Vuol dire al contrario presente ma non al passo con i tempi. Qualche esempio.
Due anni fa, prima che la questione dei richiedenti asilo e dei rifugiati diventasse la notizia del giorno in Europa, il cineasta israeliano Avi Mograbi aveva cominciato a lavorare con un gruppo di richiedenti asilo che si trovano in un campo nel mezzo del deserto, confinati dallo stato di Israele. Il lavoro consiste in un atelier di teatro che utilizza la tecnica del «Teatro degli oppressi» sviluppata in Brasile da Augusto Boal. Il presupposto politico è che Israele tratta in maniera inumana quelli che bussano alle sue porte per chiedere asilo. E lo scopo è di produrre una riflessione nel pubblico (israeliano). In che senso la storia di questi rifugiati è diversa da quella di tanti ebrei che negli anni trenta e quaranta fuggivano dall’Europa chiedendo asilo altrove? Difficile dire come il film risponderà a questa domanda. Mograbi è noto per costruire i suoi film facendoli. Il set per lui è sempre un momento in cui le idee iniziali vengono distrutte e un nuovo film prende corpo (che porta sempre delle tracce, come delle cicatrici, dell’antico progetto). Lo sapremo presto: forse già a Cannes.
L’altro «inattuale» è il prossimo film di Bertrand Bonello. Il progetto si chiamava in partenza Paris est une fête. Ma è possibile che il titolo d’arrivo sia diverso. Anche in questo caso, il tema sembra venire dritto dalle pagine dei giornali. Dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) trattarsi di una storia di giovani che progettano ed eseguono una serie di attentati a Parigi. Ora questa breve sinossi (che in questo caso è un’indiscrezione) porta fuori strada. Bonello si è interessato spesso alle dinamiche di quelli che potremmo chiamare gruppi in fusione. Basti pensare a Della Guerra (2008). Ma la sua visione è sempre agli antipodi di tutto quello che si osserva sul grande schermo in materia di persone che si trascendono in un’azione collettiva. Di certo, quest’ultimo non è ispirato all’attualità. Bonello lo aveva scritto molto prima delle stragi di gennaio e di novembre. Non sarà un film su un gruppo armato di matrice islamica. Da quanto trapela, dovrebbe trattarsi di un film su un gruppo le cui azioni fanno pensare alle tecniche del situazionismo. La sola cosa certa è che, comunque sia il film e qualunque sia il suo contenuto effettivo, sarà visto nel clima venutosi a creare in seguito agli attentati che hanno colpito Parigi nel 2015. Clima in cui tutto è d’attualità, salvo la riflessione.
Chi è più inattuale di Kelly Reichardt? Tutti i suoi film procedono con il passo del’osservatore. E sembrano fatti apposta per mettere lo spettatore nella situazione imbarazzante di dover decidere da sé cosa pensare di quello che vede. Forse l’ultimo, Night Move, in cui un gruppo di ecologisti decideva di passare all’azione, deve esserle sembrato troppo attuale. Nel prossimo, Certain women,  tornerà alle sue origini, all’ovest americano, a quel suo cinema che sembra sempre essere sceso per caso da uno di quei treni merci che attraversano lentamente il paese, caricando e scaricando qui e là gruppi di diseredati che la crisi, la grande depressione sempre inattuale, sradica e fa rotolare ad ovest. Questa volta Reichardt è scesa in una città del Montana, dove incrocia tre storie di donne…Vedremo.
All’apice dell’inattualità, e dell’attesa, c’è ovviamente Werner Herzog. Ogni nuovo film di Herzog è: La storia di una conquista, un film impossibile, un documentario su come l’impossibile è stato infine conquistato. La prossima scalata si chiamerà Salt and Fire. L’impresa dovrebbe comportare un vulcano sudamericano e un disastro ecologico. La morale, si dirà, è non è nuova: c’è da scommettere che sulla sommità del vulcano il nostro Sigfried troverà la cosa più preziosa: il valore dell’inutile. Una lezione per tutti e un film per nessuno.

(Eugenio Renzi)

Donne e famiglie disfunzionali:
Pedro Almodovar e Paolo Virzì

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A vent’anni attendevo i film di Pedro Almodovar con grande emozione: la sua presenza era una boccata di trasgressione, sesso, eccitazione davanti alla mirabilia dei colori, dei personaggi, delle trame che si intersecavano e si modificavano e si accrescevano le une con le altre. Devo tristemente ammettere che le ultime prove del regista mi hanno lasciato l’amaro in bocca: Gli abbracci spezzati (2009), La pelle che abito (2011), Gli amanti passeggeri (2013) non mi hanno provocato più che un sorriso sulle labbra. Ogni volta però non smetto di sperare che possa riprendere a graffiare l’immaginario collettivo affondando i dentini nella polpa del nostro collo vampirizzabile. Chissà se questa Julieta, ennesimo personaggio femminile, sarà indimenticabile quanto Carmen Maura donna sull’orlo di una crisi di nervi o la vibrante Marisa Paredes di Tutto su mia madre: Almodovar narratore di donne contraddittorie, donne in corpi maschili con desideri femminili, un gender mutante e senza confini, condizione umana che è emersa piano piano, negli anni, dopo che lui ce l’aveva, per primo, coraggiosamente presentata.
I Coen (Joel e Ethan) sono un’attesa scontata, condivisa. I due fratelli del cinema americano, nell’arco della loro carriera, hanno deluso meno dello spagnolo: gli ultimi due o tre titoli (A serious man 2009, Il Grinta 2010, A proposito di Davis, 2013) erano delle pellicole di alto livello ma non sempre sconvolgenti come Fargo (1996). Stavolta il plot di Ave, Cesare! fa già ridere: negli anni 50 a Hollywood Josh Brolin, un fixer (risolutore di problemi) dovrà scoprire cosa è accaduto al protagonista del film in costume (George Clooney) scomparso nel bel mezzo delle riprese. Cinema nel cinema in una finta antica Roma: riferimenti promiscui a Truffaut, Huston e le pellicole trash italiane sui gladiatori, un mix da non perdere. Sarà il film di apertura del festival di Berlino.

Ho letto La famiglia Fang di Kevin Wilson (edito in Italia da Fazi) alla sua uscita nel 2012 e l’ho trovato trascinante, duro, estremamente coinvolgente. La Kidman deve averla pensata come me, ha comprato i diritti e ed è diventata la protagonista della pellicola che porta la regia di Jason Bateman, che lo interpreta come protagonista maschile. La storia esplora una famiglia disfunzionale i cui genitori (Christopher Walken e Maryann Plunkett) sono due performer affermati che, negli anni Settanta, usano i figli come parte attiva delle loro azioni artistiche, neutralizzando le loro identità ribattezzandoli come Bambino A e Bambino B. La matrice letteraria, per un adattamento per il grande schermo, ha i suoi punti di forza e le sue insidie: la scrittura di Wilson è fluida, ironica, sagace, speriamo abbiano trovato il modo di restituirla in immagini visualizzando una storia drammatica ma grottesca, cinica ma amorosa, devastante ma catartica.
Tra gli italiani mi incuriosisce sempre Virzì: ha girato La pazza gioia accostando la passionale moglie Micaela Ramazzotti all’austera Valeria Bruni Tedeschi ad interpretare due donne molto diverse tra loro che hanno entrambe commesso degli errori. Chissà che ha combinato Massimo Gaudioso che esordisce in solitaria, vent’anni dopo Il caricatore (Cappuccio, Gaudioso, Nunziata), con Un paese quasi perfetto, remake del canadese La grande seduzione di Jean-François Pouliot del 2003, passato quasi inosservato da noi, con Fabio Volo (usato dal ex compare Cappuccio nel suo Uno su due). Vedremo.

(Fabiana Sargentini)

 

Supereroi e blockbuster
Anthony e Joe Russo e Michael Bay

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Immaginando i titoli che vedremo nel 2016, inevitabilmente l’attenzione è puntata sui grandi nomi. Da Clint Eastwood, affiancato da Tom Hanks per Sully, a Jeff Nichols e alla sua prima sortita nel cinema fantastico con Midnight Special. Grande curiosità anche per James Gray, atteso alla prova del nove con un progetto cui ha dedicato moltissime energie, ossia The Lost Land of Z. Perversamente, essendo questi i valori accertati, si sposta volentieri lo sguardo in direzioni più ludiche. Se il 2015 è stato l’anno dei supereroi, il 2016 si annuncia altrettanto agguerrito. Ovviamente il titolo maggiormente atteso, e non potrebbe essere altrimenti, è l’adattamento cinematografico del Doctor Strange, personaggio Marvel esoterico creato da Stan Lee e Steve Ditko. Alle redini del progetto il (quasi) sempre interessante Scott Derrickson, regista di horror notevoli come The Exorcism of Emily Rose, Sinister e Liberaci dal male. Se si mette nel conto che il dottore delle arti mistiche sarà interpretato da Benedict «Sherlock» Cumberbatch, è inevitabile che il tasso di attesa «nerd» tocca livelli preoccupanti. Per restare in casa Marvel, si aspetta con qualche trepidazione anche Captain America: Civil War dei fratelli Anthony e Joe Russo. La saga politica della registrazione dei supereroi scritta da Mark Millar diventa il terreno di scontro fra Captain America e Iron Man. Curiosità elevatissima anche per il prossimo film dei Vendicatori, sempre diretto dai Russo, ma previsto per il 2017. Sempre dalla scuderia Marvel, si attende invece Deadpool, il più dissacrante e autoironico degli eroi in calzamaglia che non disdegna l’ultraviolenza splatter. Tutti blockbuster, ovviamente, a conferma di una politica produttiva che preferisce macroinvestimenti a strategie di medio budget. Ovvio che il rischio dell’indigestione è dietro l’angolo. Basti pensare al pessimo Zack Snyder cui sono state affidate le chiavi del pantheon della DC e del quale si attende con molta preoccupazione Batman vs. Superman: Dawn of Justice. Snyder, infatti, sul modello The Hateful Eight, vorrebbe presentare in Ultra Panavision, ossia a 70mm, il suo opus. E fra tanti eroi in calzamaglie aderenti e multicolori, in armatura e non, ritorna il principe degli eroi pulp (in senso strettamente storico e filologico). Diretto da David Yates, regista del dittico finale di Harry Potter, si attende The Legend of Tarzan, interpretato da Alexander Skarsgård, Margot Robbie e Samuel L. Jackson. È dal 1984, escludendo Bo Derek e varie riduzioni a cartoni animati, che la creazione più celebrata di Edgar Rice Burroughs non trova un’adeguata trasposizione filmica. La tartaruga di Skarsgård promette benissimo così come le scimmie digitali. S’incrociano le dita. Chi invece continua a giocare al di fuori dei perimetri del già noto è il testardo e affascinante Alex Proyas, autore de Il corvo e Dark City. Con Gods of Egypt, il regista, nato proprio in Egitto nel 1963, sembrerebbe avere messo in piedi una potenzialmente molto interessante fantasmagoria in grado di muoversi fra suggestioni steampunk, peplum e revisionismo supereroistico. Attesissimo, ma non da tutti, 13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi di Michael Bay in momentanea libera uscita dai Transformers, franchise della quale si prevede sempre nel 2017 il quinto capitolo. Il problema, ovviamente, fra tutti questi grossi calibri, e capire se troveranno la strada della distribuzione italiana anche l’equivalente delle sorprese indie di quest’anno (ricordiamole: Bone Tomahawk, Cop Car, The Invitation e Diary of a Teenage Girl).

(Giona A. Nazzaro)

Paesaggi d’America

Todd Solondz e i fratelli Coen

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L’avevamo visto l’ultima volta a Venezia nel 2011 con Dark Horse, una delle sue commedie nere ingiustamente passata in sordina, senza ricevere alcun premio nel concorso di quell’anno e rimanendo privo di una qualsiasi distribuzione italiana. Lui è il regista americano Todd Solondz, e la ragione della sua poca digeribilità per il grande pubblico è forse la durezza con cui si cimenta – specialmente nei suoi due capolavori: Fuga dalla scuola media e Happiness, rispettivamente il suo primo e secondo film – nello smascherare lo stereotipo patinato della provincia americana piccolo borghese, con uno sguardo verso i personaggi al contempo cinico ed empatico. Il suo prossimo film, Wiener-dog, è una commedia di cui per ora si sa solo che racconterà la storia di un bassotto che gira per l’America regalando gioia a chi incontra. Ma è già uno dei film che aspettiamo di più nel 2016: debutterà al Sundance il 22 gennaio.
Il sovvertimento degli stereotipi è alla base anche del cinema più «classico» e strutturato dei fratelli Coen, loro pure attesi nel 2016 con Ave, Cesare! il loro ritorno alla commedia dopo A Serious Man del 2009. Uno stile, quello di Joel e Ethan Coen, meno sperimentale di quello di Solondz, e che si muove sempre nell’ambito del genere, le cui regole vengono però costantemente sovvertite per giungere a una messa in discussione delle convenzioni che lo strutturano. Il risultato è una filmografia che ha sinora rivisitato tutti i modelli classici del cinema americano – dal noir al western alla stessa commedia – ma anche una visione divertita e al contempo tragica della realtà che li accomuna ancor più allo sguardo del regista di Dark Horse – volto a svelare l’orrore e la solitudine nella provincia ignorante e bigotta – con cui condividono anche un misto di distaccamento e simpatia per i loro protagonisti terribili o terribilmente idioti.
Una rivisitazione degli stereotipi – in questo caso quelli legati all’eroismo – ce la potremo forse aspettare anche sul versante dei blockbuster, con uno dei titoli più attesi della stagione cinematografica che verrà: Batman v. Superman: Dawn of Justice di Zack Snyder, che giunge a soli tre anni di distanza dall’uscita dell’ultimo capitolo della trilogia di Nolan sul Cavaliere Oscuro. Se il mediocre reboot di Superman – Man of Steel, sempre di Snyder – non lascia ben sperare, e nonostante contro la scelta di Ben Affleck nei panni dell’uomo pipistrello sia nata anche una ironica petizione rivolta alla Casa Bianca, va detto che Dawn of Justice è liberamente tratto da una delle graphic novel più belle che siano state realizzate su Batman. The Dark Knight Returns, di Frank Miller, è infatti una delle opere che ha iniziato una rilettura della figura di Batman in chiave dark – quella che poi ha ispirato le sue migliori manifestazioni cinematografiche – rimettendo in discussione e spesso ribaltando gli assunti alla base dell’eroismo a Gotham City, e dotando l’uomo pipistrello di una profonda ambiguità.
Al di fuori di questo schema di messa in discussione delle convenzioni – ma comunque da segnalare fra le uscite del 2016 – è il ritorno dell’enfant prodige Xavier Dolan, regista canadese che a soli 26 anni scrive, gira, monta e produce i suoi film, in cui spesso è anche attore e costumista. Film che si muovono nell’ambito del melodramma e che riguardano quasi sempre la necessità dei personaggi, spesso portatori di una vena autobiografica, di trovare un posto nel mondo. Nel 2016 sono attesi ben due titoli diretti da Dolan: Juste la fin du monde, storia di uno scrittore malato terminale che torna a casa dopo una lunga assenza e The Death and Life of John F. Donovan, sua prima produzione americana, che racconta la corrispondenza fra una star del cinema e un bambino di 11 anni.

(Giovanna Branca)

La Storia, le storie

Sergei Loznitsa e Xavier Dolan

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Dopo i recenti Maidan e The Event, Sergei Loznitsa torna al film di finzione con Babi Yar, ambientato nel 1941 all’inizio dell’invasione nazista in Unione Sovietica, quando in due giorni di settembre vennero uccise e gettate in una fossa comune decine di migliaia di ebrei. Storie tragicamente conosciute e immaginate da molti altri autori, ma in questo caso la caduta agli inferi di un’intera umanità (vittime e carnefici) è vista da un regista che nei lavori precedenti ha dimostrato una sensibilità profonda nel provare a risalire a un senso della nostra storia passata e presente.
Se siamo curiosi di vedere all’opera un regista alla sua seconda prova dopo un esordio piuttosto controverso, allora non si può non menzionare True Crimes del regista greco Alexandros Avranas che dopo Miss Violence dirige Jim Carrey e Charlotte Gainsbourg in un thriller (co-produzione Polonia, Stati Uniti) tratto da un articolo uscito nel 2008 sul «New Yorker» di David Grann. Un detective indaga su un delitto le cui modalità sono molto simili a quelle descritte in un libro. Al di là di una trama che in apparenza può sembrare tradizionale, la memoria va a come Miss Violence divise critica e pubblico in due, tra chi gridò al capolavoro capace di entrare nelle maglie del mondo contemporaneo che annichilisce le esistenze nella quotidianità più banale e chi, invece, rilevò in quel racconto di violenze famigliari un misero e autocompiaciuto estetismo. Che direzione avrà preso qui Avranas? Quale influenza avrà avuto la presenza di un cast così altisonante?
A distanza di otto anni, cioè quando realizzò La mujer sin cabeza, Lucrecia Martel torna alla regia di un lungometraggio con Zama, tratto dal romanzo di Antonio di Benedetto, scritto nel 1956 e ambientato nel diciassettesimo secolo in Paraguay. Da un punto di vista autoriale, si tratta di un ritorno importante perché la regista, a partire da La ciénaga (2001), è stata tra coloro che hanno maggiormente contribuito alla rinascita del cinema argentino.
Per quanto riguarda il film, a differenza degli altri suoi tre lungometraggi, Zama sembra discostarsi per la collocazione storica e geografica. Il romanzo racconta di un modesto funzionario coloniale, Don Diego de Zama, che vive nella speranza che un giorno le sue sorti possano migliorare, magari anche con un gesto eroico. Proprio questo interrogarsi sul senso dell’esistenza, sul tempo trascorso vanamente e sulla necessità di comprendere come rovesciare un destino misero, ricolloca questa vicenda in un tempo sospeso, restituisce questa figura al nostro contemporaneo.
L’uomo, gli altri e il mondo. Tre termini che troveremo nei film che Xavier Dolan: Juste la fin du monde e The Death and Life of John F. Donovan. Il primo è tratto da una pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce e interpretato da Gaspard Ulliel, Nathalie Baye, Marion Cotillard, Léa Seydoux e Vincent Cassel. La storia inizia con il ritorno in famiglia, dopo una lunga assenza, di uno scrittore che annuncia la sua morte imminente e prosegue con ciò che questa rivelazione scatena nelle diverse relazioni famigliari. Con The Death and Life of John F. Donovan si passa dal racconto intimo a una visione dissacrante dello star system. John Donovan è una stella del cinema e inizia una corrispondenza con un amico di penna che ha undici anni. E se in Juste la fin du monde è il protagonista a rivelare qualcosa di sé e a modificare la realtà circostante, in questo caso le parti si invertono. Le accuse infondate di pedofilia ai danni di John Donovan da parte di una giornalista senza scrupoli porteranno il protagonista alla distruzione.

(Mazzino Montinari)