L’ultimo lavoro del gruppo Biancofango è interessante per due diversi ordini di motivi. Innanzitutto per essere nato da un’esperienza di laboratorio con un gruppo di attori giovani e giovanissimi, i cui risultati sono ben visibili in scena. Una dozzina di corpi scatenati e padroni di sé, che mostrano non solo agilità fisica, ma soprattutto la capacità vocale di tenere con sicurezza registri diversi: assai raramente in situazioni analoghe si coglie una tale padronanza della voce e dei suoi toni, che vuol dire soprattutto la possibilità di farsi capire dallo spettatore e quindi coinvolgerlo.

Riscrivere oggi Shakespeare è assai rischioso, perché tutto corre il pericolo di esser stato già visto e sentito. Ma i ragazzi preparati dalla regia di Francesca Macrì, anche drammaturga dello spettacolo assieme a Andrea Trapani (che è pure in scena nelle vesti di messer Capuleti) se ne appropriano in profondità, e lo offrono al pubblico con intraprendenza assoluta. D’altra parte il testo è, rispetto alla galassia shakespeariana, quello più vicino agli interpreti per motivi anche banalmente generazionali.

È nato così Romeo e Giulietta, ovvero la perdita dei padri (prove di drammaturgia dello sport con gli adolescenti), in scena ancora oggi e domani al teatro India. Ma proprio quella parola «sport» dà la chiave per spiegare l’altro motivo di interesse dello spettacolo. Perché se è facilmente immaginabile che il riferimento vada anche all’atletismo della ragione e dei sentimenti, c’è fin dall’ingresso in sala una sana pratica agonistica, una seduta da palestra scolastica che vede i ragazzi e le ragazze dar luogo a un allenamento calcistico, dove è compreso perfino l’immediato rinvio allo scontro di tifoserie di Capuleti e Montecchi (molto più pertinente di altre divisioni in gang malavitose o tra rivali cucine di pizzeria, come si son viste in anni recenti).

Il ritmo e il sound del calcio resta il leit motiv di una energia oppositiva che nessuno può riuscire a fermare. La morte di Mercuzio e quella di Tebaldo diventano risse a bordo campo, ma il vero nodo dell’amore e delle scelte di vita resta un privilegio privato. Tanto che nel finale, la scena più bella e commovente, la morte dei due ragazzi infelici sostituisce alle traversie che si succedono nella cripta di Frate Lorenzo, il suicidio di coppia struggente, quasi dilaniante, della bellissima Albergo a ore di Herbert Pagani, nella versione cantata da Gino Paoli.
Un potente colpo di teatro, che riporta il testo elisabettiano alla sua bruciante contingenza, e fa svanire il dubbio cilioso se i reperti shakespeariani che affiorano ogni tanto nel testo, siano davvero la misura migliore del linguaggio dei ragazzi.