Diceva Andreotti che il potere logora chi non ce l’ha. Ma alla fine logora anche chi ce l’ha. Renzi spiega la pesante sconfitta del PD con la vittoria di volti giovani. Allora almeno il volto suo è precocemente invecchiato, perché candidati perdenti recano il suo imprimatur, e hanno avuto il sostegno persino troppo evidente suo personale e del governo.
Renzi è l’uomo dei numeri taroccati. Ha scalato il partito con le primarie aperte mettendo ai margini gli iscritti con il voto di quelli che si trovavano a passare. Con i numeri taroccati degli organi dirigenti ha messo alla porta Letta, ha stretto nell’angolo la minoranza interna, ha sterzato a destra. L’esito ultimo è stato un esodo di militanti che si sono sentiti forzosamente espulsi dalla propria casa politica, certo non sostituiti dalla società civile che aveva votato nelle primarie. E Renzi si è trovato quasi ovunque senza un partito, o almeno senza un partito che sapesse o potesse governare. Erano taroccati – nell’uso che ne ha fatto Renzi – i numeri delle elezioni europee. Il 40,8% di voti al PD andava riferito a una partecipazione del 58% degli aventi diritto, per un consenso reale inferiore al 24%. Davvero poco per trarne l’immagine di un sostegno plebiscitario alla sua persona e alle sue politiche. E ancora erano taroccati i numeri parlamentari – illegittimi per la dichiarata incostituzionalità del Porcellum – con i quali ha forzato l’approvazione delle sue riforme, prime fra tutte la legge costituzionale Renzi-Boschi e l’Italicum.

Il voto amministrativo chiude la stagione dei numeri taroccati. Già nel primo turno si vedeva il PD sconfitto mancare il ballottaggio in una realtà importante come Napoli. Ma proprio il ballottaggio che tanto piace al premier ha chiarito poi in modo inoppugnabile che nelle maggiori città italiane il Pd è ridotto ai minimi termini. Altresì ha dimostrato che l’asse portante del disegno politico istituzionale di Renzi – il partito della nazione – proprio non decolla: il PD perde voti a sinistra e non ne guadagna al centro. Anzi i flussi elettorali mostrano che partito della nazione potrebbe essere M5S e non il PD.
Ovviamente emergono due letture alternative. Per la prima, il partito frana perché si sposta a destra e perde voti a sinistra. Per la seconda, il partito perde se si presenta lacerato da contrasti e faide interne. Nel primo caso la colpa è di Renzi, nel secondo della minoranza. E sarà probabilmente questa la recita cui assisteremo.
Quello che proprio non regge – qualunque cosa dica Renzi – è la lettura del voto in una chiave puramente locale, irrilevante per il governo. Basta guardare alla stampa estera. Il New York Times online dà con evidenza la notizia della sconfitta del PD soprattutto a Roma e a Torino. Una lettura che può anche sembrare rozza rispetto ai raffinati arzigogoli di qualche commentatore nostrano. Ma coglie che nel renzismo si sono aperte vistose e profonde crepe. Quanto peso perderà domani la parola di Renzi nei luoghi – in Europa e non solo – dove fino a ieri poteva presentarsi come l’uomo vincente di un Italia rinnovata? Il voto dimostra anche come i veri passatisti siano quelli del cerchio più o meno magico renziano che hanno sostenuto riforme palesemente incoerenti con la fase storica che il paese attraversa, in particolare per il sistema elettorale. Tutti hanno preso atto che il sistema politico italiano con il voto del 5 e del 19 giugno si mostra assestato su un impianto tripolare. Ed era invero ovvio da tempo. Mentre l’Italicum – figlio diretto del patto del Nazareno e dell’intesa tra quelli che allora pensavano di essere i due partiti egemoni – è invece fondato sull’assunto di un sistema bipolare, addirittura tendenzialmente bipartitico. Già abbiamo scritto su queste pagine come il bipolarismo / bipartitismo viva un suo crepuscolo in molti paesi, oltre che in Italia. È possibile che nessuno dei due partiti stipulanti il patto del Nazareno tragga alla fine dall’Italicum il vantaggio sperato.

A chi si è staccato dal PD potrebbe anche non interessare. Ma preoccupa comunque una legge elettorale che sistematicamente produce un conflitto tra minoranze, solo in apparenza superato dal gioco di specchi di un ballottaggio che nei numeri porta chi vince oltre il 50%, rimanendo però molto basso il consenso reale. Un governo minoritario nel paese reso maggioranza da un artificio di legge elettorale può solo morire lentamente nell’arco della legislatura, per essere dopo cinque anni sostituito da un’altra minoranza gonfiata fino a Palazzo Chigi dallo stesso sistema elettorale. È questo il governo forte che si prefigura? Le alternative sono molte, da un sistema sul modello tedesco al ritorno al Mattarellum. Di certo, la storia non ci consegna paesi andati in rovina per una coalizione difficile o lenta nella sua gestazione, mentre conosciamo molti casi in cui la rovina è venuta dall’uomo solo al comando.
Tutto questo rende ovviamente la stagione referendaria assai inclemente per Renzi. I professoroni rosiconi insistono che la sorte del governo va scissa dal referendum, per evitare un ricatto al paese e favorire un confronto nel merito. In ogni caso, svanita l’immagine del vincente, Renzi si è messo a rischio di passare da rottamatore a rottamato. E che nessuno ci venga poi a dire che ce lo chiede l’Europa di mantenerlo a Palazzo Chigi.