L’egemonia della cultura dell’impresa neoliberale emerge nei luoghi più inaspettati. Quando la Cgil invita ai convegni Luigi Berlinguer, già ministro dei Ds che riformarono l’università introducendo le pratiche contabili, bancarie e aziendalistiche per quantificare i «crediti» di un corso di studio per uno studente o la nozione di «capitale umano» per incrementare il suo portfolio di competenze e competere sul mercato del lavoro grazie alla «formazione continua».

Oppure quando un partito della sinistra italiana organizza il suo laboratorio programmatico chiamandolo «Human Factor», senza accorgersi (o forse era voluto?) che il concetto di «fattore umano» è il pilastro della scuola delle relazioni umane che ha rivoluzionato le teorie del management negli anni Venti del XX secolo e oggi costituisce il riferimento delle teorie neoliberali sul marketing. Segnali di questo tipo attestano che il discorso dell’impresa è diventato la forma di vita in cui si danno oggi tutte le relazioni in una società.

Un utile strumento di orientamento e decodificazione dell’orizzonte apparentemente insuperabile dell’impresa, e del suo linguaggio ormai naturalizzato, è il libro del filosofo Massimiliano Nicoli Le risorse umane (Ediesse, pp. 239, 12 euro). Un libro prezioso sia dal punto di vista della documentazione (è una rassegna delle teorie sulla gestione d’impresa sin dalla fondazione con Ford e Taylor), sia dal punto di vista critico (l’autore è un interprete di Michel Foucault e della sua lettura del neoliberismo e della biopolitica).

La congiunzione tra il discorso pubblico e l’immaginario del soggetto imprenditore si è saldata fin dagli anni Settanta, si è consolidata nella rivoluzione conservatrice di Thatcher e Reagan, è diventata universale dopo la caduta del Muro di Berlino. L’idea della specializzazione flessibile della produzione postfordista (lean production e produzione just-in-time o on demand) ha incontrato la strategia dell’innovazione permanente e della formazione continua. La trasformazione del modo di produzione ha definito l’esistenza di un nuovo cittadino al quale è oggi richiesta la partecipazione al capitale, la collaborazione desiderante alla propria alienazione, l’interiorizzazione delle colpe dei dominanti sotto forma delle politiche dell’austerità e del debito.

Nicoli mostra come la forma-impresa sia diventata una forma di vita, mentre la soggettività è concepibile solo come un divenire impresa del sé e del rapporto con gli altri. «La connessione tra postfordismo e neoliberalismo non solo assegna ai mercato un ruolo “aleturgico”, cioè di manifestazione del vero e di test della validità delle pratiche politiche – scrive – ma individua nella soggettività individuale un altro luogo di “veridizione” in cui si manifesta la nozione neoliberale di “capitale umano”. Ciò che resta della storia è noto: la politica, come la conoscenza, o qualsiasi forma di vita attiva, oggi sono l’espressione del management delle risorse umane esercitato attraverso le tecniche della valutazione, esposizione o confessione che trasformano gli individui in unità-imprese».

Il libro di Nicoli non si occupa direttamente delle alternative a questo dispositivo di governo delle menti e dei corpi. Quanto scrive è tuttavia il risvolto di una ricerca che oggi impegna il dibattito politico più avanzato. Il suo metodo ricorre agli strumenti della genealogia di Foucault e si esercita sui saperi «grigi» dell’organizzazione d’impresa, facendo emergere le sfumature del neoliberismo dalle biografie dei manager o dalla sterminata letteratura sulle relazioni d’impresa prodotta in un secolo. Le mappe remote del presente così tracciate dimostrano che la trasformazione delle strutture del governo oggi non passano dai saperi «incoronati» dalle cattedre, dalle istituzioni o dai loro corpi intermedi, ma dalla critica serrata degli oggetti «bassi» come il management di impresa che hanno colonizzato la vita.