I cinesi non pagano più i Talebani. La prima notizia è questa. La seconda è che i pakistani hanno capito che il doppio gioco può essere controproducente. La terza è che i sauditi e i qatarini stanno tirando i remi in barca e dirottano denari e aiuti su investimenti più produttivi (vedi alla voce Stato islamico). La quarta è che gli iraniani stanno prendendo il posto dei finanziatori arabi.

L’ultima riguarda il fronte interno: a dispetto delle spaccature interne, per la prima volta i Talebani sono riusciti a coordinarsi militarmente, lanciando un’offensiva di primavera straordinariamente efficace. È questo il quadro che emerge dalle discussioni avute a Kabul con una serie di analisti e ricercatori, afghani e internazionali. Tra loro c’è Antonio Giustozzi, il più autorevole studioso del movimento degli studenti coranici, con cui abbiamo analizzato il significato degli incontri tra le delegazioni talebane ed alcuni esponenti del governo e della società afghana tenuti a Dubai, Oslo, Urumqi, Teheran.

Dialoghi e combattimenti

Partiamo da un dato di fatto: la contraddizione tra le iniziative di dialogo e i duri combattimenti sul terreno «deriva dalla dialettica interna al movimento talebano», composto da tre shure (consigli) principali, tutte e tre con sede in Pakistan: la shura di Quetta, quella di Peshawar e la Miran Shah shura (o network Haqqani). Sul fronte del negoziato le tre shure non parlano la stessa lingua. La shura di Quetta – vecchia guardia dei Talebani, include molti esponenti dell’Emirato islamico rovesciato dagli americani nel 2001 – «è disponibile al negoziato politico. O perlomeno lo era», spiega l’autore di Empires of Mud. War and Warlords in Afghanistan.

«Ha fatto pervenire al presidente Ghani due condizioni precise: la condivisione del potere in un futuro governo e la modifica della Costituzione. Sul primo punto Ghani ha risposto che ci si poteva lavorare, mentre ha risposto negativamente sul secondo».

Da qui lo stallo, «perché anche i più pragmatici leader della shura di Quetta sanno che senza concessioni significative non sono in grado di portarsi dietro gli altri Talebani, specie i comandanti militari, più riluttanti al negoziato». Anche «la shura di Peshawar in linea di principio non era contraria al negoziato, ma tra la fine dell’anno scorso e l’inizio del 2015 ha dovuto fare i conti con una significativa riduzione dei finanziamenti, che si è tradotta nel licenziamento di diversi comandanti».

Questo ha causato dei ripensamenti: «temono che il negoziato torni più utile alla shura di Quetta, oggi più solida. Hanno deciso di far sentire il proprio peso militare sul campo, così da posticipare i colloqui di pace e guadagnare terreno». A restare su posizioni intransigenti sono i membri del network Haqqani (Miran Shah shura), «i duri e puri che sparano e basta». Non si tratta soltanto di una questione ideologica, spiega Giustozzi, ma pragmatica. «I leader come Serajuddin Haqqani si chiedono cosa potrebbero ottenere dal negoziato. Di certo non un ministero, al massimo l’amnistia, ma non è gente pronta alla pensione».

A dispetto delle spaccature sul processo di pace, «per la prima volta c’è un accordo di natura strategico-militare tra le tre shure», spiega Giustozzi: «è stato istituito un Consiglio per il coordinamento militare, altra cosa rispetto alla tradizionale Commissione militare centrale; il Consiglio dispone di un budget specifico, di strutture nei distretti e nelle province, permette un vero e proprio coordinamento sul campo».

I risultati sono evidenti: «l’offensiva talebana di primavera è stata inaugurata in modo sincronizzato in 21 delle 34 province afghane, con una tendenza mai vista a concentrare le forze». I Talebani cercano di ottenere un maggior peso negoziale dimostrando sul campo la propria forza militare. Ma sanno che non c’è troppo tempo. «Molti pensano «o adesso o mai più».

O adesso o mai più

L’anno scorso credevano che il governo Ghani avrebbe finito i soldi prima di loro. Ora si teme il contrario». La vera svolta, da questo punto di vista, è quella cinese, aggiunge un analista militare afghano che preferisce restare anonimo. «I cinesi erano, insieme ai pakistani, i principali finanziatori della shura di Peshawar. Lo scorso dicembre hanno cominciato a tagliare i fondi, a maggio c’è stato un taglio completo, che include equipaggiamenti e forniture».

Le ragioni sono due: «la prima è che gli americani stanno lasciando il paese. Non ci sono più ragioni per finanziare un jihad contro di loro. L’altra è che ci sono dubbi sulla lealtà dei Talebani: i cinesi hanno scoperto la presenza di quelli che considerano terroristi uighuri nella provincia del Kunar, tra i Talebani. Temono che giochino sporco». Da qui, la chiusura dei rubinetti. La scelta cinese si somma alla più generale tendenza tra i paesi del Golfo «a dirottare risorse verso lo Stato islamico del Califfo Al-Baghdadi, un investimento considerato più produttivo», soprattutto in chiave anti-iraniana. «I sauditi hanno tagliati i fondi al network Haqqani, ora li concedono solo ai gruppi che non hanno rapporti con l’Iran. I qatarini hanno già avvertito che tra due anni non ci saranno più fondi».

La Cina cambia rotta

Il cambio di rotta della Cina si traduce in una pressione maggiore sul Pakistan, affinché convinca i Talebani a sedersi al tavolo negoziale. E la tensione crescente tra le autorità pakistane e i Talebani dimostra che anche il Pakistan ha deciso di rivedere le proprie politiche, almeno in parte. «Uno degli obiettivi dell’offensiva talebana di primavera è occupare posizioni difensive lungo la faglia est/nord-est, per portare armi dal Pakistan all’Afghanistan.

I Talebani non si fidano più dei pakistani», spiega Giustozzi. «Sono circa tre mesi che, per la prima volta, i comandanti militari talebani si oppongono alle autorità pakistane», continua Giustozzi. «I pakistani hanno arrestato l’ex comandante militare della shura di Peshawar ma hanno dovuto rilasciarlo perché i comandanti delle tre shure, tutti insieme, si sono opposti. Un fatto inedito». I comandanti militari si oppongono al processo di pace. I leader politici talebani per ora non intervengono. Cercano di capire come portare dalla loro parte, sul fronte negoziale, anche chi combatte sul terreno. E di interpretare le intenzioni delle autorità pakistane: «il cambiamento di rotta è chiaro e reale. Meno chiaro è quanto ne siano felici i membri dell’establishment militare», sostiene Giustozzi. Ma la vera domanda è fino a che punto i pakistani possano influenzare i Talebani.

«Certo, potrebbero tagliare i fondi, ma se si spingessero troppo in là i Talebani rischierebbero di disintegrarsi e così verrebbe meno anche l’utilità del Pakistan; al contrario, se le autorità pakistane facessero troppo poco il presidente afghano Ghani, che su questo ha giocato molto, potrebbe reagire male».

L’Iran

Nella partita regionale, l’Iran sembra assumere un ruolo crescente: «la recente visita delle delegazione talebana a Tehran, su cui molto si è scritto, non è niente di nuovo», spiega Giustozzi. «I Talebani si recano spesso in Iran, a Tehran o Mashad, oppure al consolato iraniano di Quetta, in Pakistan. Almeno una volta al mese». La novità vera è che la visita sia stata resa pubblica: «gli iraniani vogliono mostrare che al tavolo negoziale dovranno sedersi anche loro. Inoltre, se la minaccia dello Stato islamico dovesse accentuarsi, gli iraniani potrebbero ufficializzare il rapporto con i Talebani». Un rapporto solido: alle tre shure tradizionali ormai se n’è aggiunta una quarta proprio a Mashad, nel nord-est dell’Iran. Un analista afghano ci spiega che, «nata come ufficio politico della shura di Quetta, ora la shura di Mashad si è resa autonoma». E rappresenta a tutti gli effetti il quarto centro di potere talebano.

Un potere che dipende dai finanziamenti esteri. Anche da quelli iraniani: «tutti prendono soldi dall’Iran. Lo fanno gli Haqqani. Ha cominciato a farlo la shura di Peshawar, per rimpiazzare i soldi dei sauditi. Mentre la shura di Quetta è divisa tra due fazioni: quella del responsabile della Commissione militare centrale, Abul Qayyum Zakir, che ha rapporti solidi con l’Iran, e quella di chi – avvertito dai sauditi – ha mollato gli iraniani». Per ora, sono proprio gli iraniani a frenare sui colloqui di pace: «all’Iran non piace che il negoziato sia sponsorizzato principalmente dai sauditi, per questo si oppongono. Gli iraniani vedono l’Afghanistan come un teatro sul quale esercitare pressioni versi gli americani; preferiscono prima risolvere la questione nucleare, stabilizzare le relazioni. Tra un paio d’anni anche l’Iran potrebbe avere interesse in un processo di pace. Non ora». In Afghanistan, l’entusiasmo è sempre prematuro.