Stato d’emergenza contro la disoccupazione dichiarato dal presidente François Hollande, riforma del diritto del lavoro, a partire dal Rapporto presentato qualche giorno fa da Robert Badinter, eutanasia per le 35 ore, addizione di misure parziali di liberalizzazione con le iniziative del ministro dell’Economia, Emmanuel Macron.

Hollande ha legato l’eventualità di presentarsi candidato alla propria successione all’«inversione della curva della disoccupazione», cioè alla fine dell’aumento dei senza lavoro, cresciuti di 668mila unità sotto la sua presidenza, con orami 3,5 milioni di disoccupati e 5,4 milioni di iscritti al Pôle Emploi (Ufficio di collocamento pubblico) in tutte le categorie. Il governo socialista sta portando a termine il cambiamento della Francia del lavoro, verso l’adesione senza complessi alle tesi liberiste?

L’analisi di Dominique Méda, sociologa e professore all’università Paris-Dauphine, una delle maggiori specialiste del lavoro in Francia. Dopo l’ormai classico Le Travail. Une valeur en voie de disparition (Flammarion, 1995), tra le sue ultime pubblicazioni, La Mystique de la croissance (Flammarion, 2013) e Le Travail nella collezione Que sais-je? dell’editore Puf (2015).

Di fronte alla disoccupazione, che non cala – anzi – François Hollande e il governo sembrano voler accelerare le decisioni. Restiamo sempre in una prospettiva dell’economia dell’offerta, con miliardi al padronato in sgravi di contributi nella speranza che assumano? Perché non emerge una posizione alternativa, forte e credibile?

 

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Alla politica dell’offerta è stata aggiunta una parte importante, che riguarda il trattamento sociale della disoccupazione. L’idea di offrire una formazione a 500 mila disoccupati è molto interessante. È certo criticata da coloro che non credono nella formazione, ma resta un punto di primo piano. Il problema è che stanziare un miliardo di euro per 500 mila disoccupati, significa 2 mila euro a testa, cosa che rappresenta una formazione di brevissima durata. Il timore che si può avere è che i programmi di formazione siano di una durata insufficiente per permettere di riqualificare davvero delle persone che sono molto lontane dall’occupazione. Invece, i contributi all’assunzione sono una misura abbastanza classica, di cui conosciamo i limiti: comporta fortissimi «effetti di bella sorpresa», cioè le imprese che assumono avrebbero assunto comunque, anche senza gli aiuti.

La riforma del Codice del lavoro, dalle proposte Badinter fino alla prossima legge El Khomri, limiterà i diritti, siamo con le spalle al muro in un’economia mondializzata e non si può fare altrimenti per restare a galla? È la fine del simbolo delle 35 ore, già in parte superate nella realtà?

Sapremo solo con la legge El Khomri (e le successive) se il diritto del lavoro sarà limitato o meno. Per il momento, il rapporto di Robert Badinter è abbastanza prudente. Ma in effetti la legge può cambiare molte cose e il Codice del lavoro verrà riscritto. Attualmente c’è una vera e propria offensiva contro il Codice del lavoro, anche se è chiaro che non è la causa dell’alta disoccupazione che esiste in Francia. Il Codice del lavoro non ha mai impedito ai datori di lavoro di assumere (sono stati creati 2 milioni di posti di lavoro tra il 1997 e il 2002) né di separarsi dai dipendenti (attraverso il licenziamento, o adesso con la nuova formula della «rottura convenzionale», il cui numero sta esplodendo, a riprova che i datori di lavoro dispongono ampiamente di mezzi per separarsi dai dipendenti).

Ma io non credo che le 35 ore saranno facili da cancellare: quando i lavoratori capiranno che si tratta semplicemente di eliminare la remunerazione degli straordinari, non credo che saranno molto favorevoli. Tutto ciò evidentemente non va nella miglior direzione, che sarebbe quella di condividere meglio il volume di lavoro disponibile a un momento dato nella società. Le 35 ore hanno permesso di creare dei posti di lavoro (più di 350 mila) a un costo ben inferiore all’attuale CICE, il Credito di imposta per la competitività e l’occupazione (si parla di 9 mila euro netti per posto di lavoro contro 130 mila per il Cice) e hanno anche permesso di intraprendere un processo di riequilibrio tra l’impegno professionale e quello privato per gli uomini e le donne, oltre che de-precarizzare il part-time: oggi, se in Francia abbiamo un minor numero di lavoretti mal pagati e mal protetti che in altri paesi e dei part-time meno numerosi e di una durata più lunga, è proprio grazie alle 35 ore.

In Europa, c’è il modello tedesco. La Gran Bretagna è presentata come un paese che funziona. In Italia, con il Jobs Act abbiamo avuto una riforma liberista del lavoro, senza grandi risultati. Tutti vanno nella stessa direzione, inesorabilmente?

Purtroppo sì: è la spirale infernale che ci tira verso il basso. Ma attenzione agli effetti ottici: dietro il tasso di disoccupazione presentato come esemplare in Germania, in Gran Bretagna o anche negli Usa, c’è l’esplosione dei lavori mal pagati, che non permettono più di far vivere degnamente i loro titolari e c’è un’esplosione del tasso di povertà. Non bisogna dimenticare che basta un’ora di lavoro per non essere più considerati disoccupati. Poi, la collettività inventa dei meccanismi super-sofisticati per ridare potere d’acquisto ai lavoratori… Un recente studio ha mostrato che la Francia crea un numero maggiore di ore di lavoro per persona in età lavorativa rispetto ad altri paesi: bisogna guardare la qualità del lavoro e non dimenticare mai di analizzare come il numero globale delle ore di lavoro viene ripartito sull’insieme della popolazione.

La Francia è sul banco degli imputati perché si suppone che lavoreremmo meno degli altri, ma se mettiamo più attenzione nell’osservare i tempi completi e i part-time, in realtà lavoriamo più a lungo dei tedeschi, dei danesi, degli olandesi. Bisogna sempre osservare come le donne vengono trattate: più spesso, è alle donne che si cerca di far sopportare gli impieghi part-time, di breve durata e mal pagati.

La precarizzazione del lavoro e quindi delle vite (visto che, dall’affitto ai prestiti bancari, tutto è basato sui contratti a tempo indeterminato) è il destino delle nuove generazioni? Secondo lei, quale è l’obiettivo di questa scelta di società? Non ci vorrebbe un’altra forma di securizzazione, come per esempio il salario di cittadinanza?

Non sono per nulla favorevole al riconoscimento di un terzo statuto del lavoro, come la para-subordinazione. Mi sembra che dovremmo a qualunque prezzo continuare a sottolineare l’interesse della condizione di salariato e delle protezioni che vi sono legate. Contrariamente a ciò che si sente ormai dire correntemente, la linea di divisione non è tra insiders (i salariati) e outsiders (i disoccupati). Questa linea è tra i lavoratori e chi possiede il capitale che, grazie a teorie come quella del “valore per l’azionista” continuano a captate il valore prodotto, ma sempre più spesso rifiutano di assumersi gli obblighi legati alla mobilitazione del lavoro salariato.

[do action=”quote” autore=”Dominique Méda”]La divisione non è tra «insiders», i salariati, e «outsiders», i disoccupati. La linea sta sempre lì, tra chi lavora e chi detiene il capitale[/do]