Lo so, non si dovrebbe andare alle inaugurazioni. Dove non si va a vedere quanto l’artista ha scelto di mostrare; piuttosto ci si fa vedere, si fa mostra di sé. Alla vernice della nuova personale di Giosetta Fioroni, Attraverso l’evento (a cura di Fabrizio D’Amico e Piero Mascitti, fino al 18 gennaio; catalogo Carlo Cambi Editore, 221 pp. col., euro 35,00), alla galleria Mucciaccia di Roma, la densità di aficionados, sedicenti amici e presenzialisti seriali era tale da ricordare, anziché il white cube, il tram 14 all’ora di punta. Il degenerare della mondanità in mutua oppressione prossemica, peraltro, fa riflettere sulle sorti di un’artista che ha sempre coltivato l’amicizia, e anche la mondanità, senza mai diluire quella che Alberto Boatto ha definito la sua «sperimentazione morbida».
Come nell’eclisse di Antonioni
Perché ci sono una Giosetta Uno e una Giosetta Due. Sul lato A c’è la versione cordiale e affettuosa, soffusa di poesia e delicatezze; la Giosetta mondana, appunto. C’è però un lato B, e lì si respira un’aria tutta diversa: un mondo esclusivo e segreto, in cui la cordialità si rovescia in sarcasmo implicito e melancholia pungente. Non una Giosetta eremitica, ma quasi oltremondana. Sua cifra espressiva, l’incupirsi della palette in tinte fosche e oppressive o, viceversa, un suo schiarirsi tutt’altro che «chiarista»: invece spettrale, congelato in una fissità catatonica, climi vicini ai quasi luttuosi argenti dei primi sessanta. Proprio la stagione, oggi, meglio tornata alla luce: la grande mostra L’Argento, a New York e alla GNAM nel 2013, e Roma anni ’60 lo scorso giugno al MARCA di Catanzaro (bellissimo catalogo Silvana, con esterni virati in argento appunto), hanno fatto riscoprire la distillatrice di solitudini, la contemplatrice di eclissi, l’auscultatrice di silenzi (all’Eclisse di Antonioni faceva riferimento Dalila Colucci nel catalogo di New York; al Silenzio di John Cage, in quest’ultimo romano, Francesca Pola). Chi più la incoraggia in questa direzione è proprio Alberto Boatto: che nel ’74 include nella mirifica macchinazione gotica di Ghenos Eros Thanatos (restaurata l’anno scorso da Stefano Chiodi per L’orma editore) alcune di quelle Foto da un atlante di medicina legale che rappresentano il nadir di questo humor noir di Giosetta.
All’inizio di questo percorso c’è la scoperta del Veneto ancestrale, ritrovato col rifugio accanto a Goffredo Parise a Salgareda, la casetta affondata nei boschi nelle anse del Piave, dove i due trovano scampo dalla mondanità, sempre meno implicitamente violenta, della città presenzialista. Sui luoghi, accennati a matita nei loro contorni primi, si stendono lente bave d’argento che ne fanno fotogrammi assiderati, emblemi di sparizione angosciosa. I Paesaggi d’argento: luoghi romani, ma soprattutto dell’arrière-pays venetico, trasfigurati in una luccicanza davvero oltremondana. In quel ’70 le manda una lettera in versi Alberto Arbasino: «Così non rimane alla pittura, probabilmente, / che attraversare le stanze della morte, / e tentar di approdare alle colorate / amarezze della fiaba». Nel ’72 esce Sillabario n. 1 di Parise, con in copertina un cuore rossastro, o rosaceo, che proviene da una nuova serie di Giosetta intitolata agli Spiriti silvani: un mondo magico in cui lo sfondo bianco s’ingarbuglia, si accende di cromatismi minimi e scritte di varia estensione (si sente l’eco di un amico di lunga data, Cy Twombly), invischia minuscoli reperti raccolti «sul campo».
Negli anni ottanta il nuovo Spirito del Luogo è Andrea Zanzotto, col quale Giosetta inizia una fitta collaborazione: a partire, nell’88, da un grande libro d’artista, Attraverso l’evento, che prende il titolo da un componimento del Galateo in Bosco (nel 2001 il Sonetto di veti e iridi – dove l’autoritratto del poeta come «vetusta talpa» fa il paio con quello di Parise come topo «disinteressato» nel sillabario Simpatia – diverrà un altro bellissimo libro d’artista, pubblicato dalla Eos di Piero Varroni) e dal quale a sua volta viene il titolo della mostra di questi giorni.
Alle fondamenta del mondo aereo e delicato di Giosetta c’è insomma un fondo terragno, una base materica fatta di sedimenti pazienti e improvvise stupefazioni. Qui decantano i suoi umori meno socievoli; e vi si può fare l’esperienza del turbamento, se non proprio del panico (i Disegni della Paura, datati 2013, costernano per secchezza del tratto e asprezza dell’immaginazione). Non è un caso che, a quell’inaugurazione, solo in pochi si siano accorti che la mostra proseguiva al piano di sotto. Di sopra le grandi policromie della Giosetta A, rese invisibili dalla calca, ma una volta sprofondati nell’ipogeo, in pressoché perfetta solitudine, si scopre il dark side di Giosetta: paesaggi dell’io così rari da vedere che in fondo, mi dico, è quasi un bene restino segreti. Così rimane un tesoro da scavare, al centro della terra – per few non so, in verità, quanto happy.