Abitiamo, disorientati, in una mutazione antropologica epocale e (lasciandola indisturbata al suo compimento) catastrofica: la sostituzione del rapporto con gli oggetti d’uso reali con una realtà esangue, immateriale. Lo spazio virtuale che ci imprigiona, nulla ha a che fare con la fantasia creativa che trasforma in materia vivibile e significativa la materia grezza di cui è fatta la realtà. Non è alla virtualizzazione della realtà in sé a cui assistiamo, ma allo svuotamento dell’immaginazione.

L’elaborazione onirica dell’esperienza vissuta, la sospensione della sua effettività che la soggettiva e la umanizza, è sostituita dal suo negativo: l’astrazione dalla soggettività attraverso la sua riduzione in una dimensione dell’esistenza puramente numerica, quantitativa. La realtà virtuale creata dall’intelligenza artificiale, è il modello a cui si uniforma questa necrosi della vita vera, che dà l’impressione falsa di uno spazio di infinite possibilità (il nulla travestito in infinito).

La criticità nel nostro rapporto con la tecnologia informatica, sta nel suo essere omogenea alla struttura del potere: la spersonalizzazione delle relazioni che tende a promuovere, rende problematico il suo uso come strumento del desiderio. Il supporto tecnologico della nostra mente è stato impropriamente considerato come sua estensione. Abbiamo colpevolmente perso di vista che è del tutto disomogeneo alla nostra attività mentale e alla nostra memoria. I nostri pensieri e i nostri ricordi sono parte indissociabile della nostra struttura psicocorporea, non esistono al di fuori del loro legame con i nostri desideri, emozioni e affetti.

Il risultato di un affidamento troppo pigro a schemi di organizzazione mentale precostituiti, è sotto i nostri occhi. Il supporto sta parassitando la materia vivente che dovrebbe servire e il potere se ne impadronisce come mezzo incruento di dominio (tanto più totalizzante quanto più narcotizzante e invisibile).

È messa drammaticamente in discussione l’esistenza del lavoro come colonna portante della civiltà. Il lavoro è uso trasformativo della sostanza di cui è fatto il mondo, costruzione del dimorare in esso, appropriazione delle sue risorse, godimento creativo delle sue qualità. L’uso della realtà (inclusa la materia umana di cui siamo fatti noi e gli altri) ci rivela alla vita e ci trasforma. Questa trasformazione, con la quale catturiamo, attraverso il più privato dei modi (la disposizione soggettiva a apprendere), l’alterità, fonda il lavoro, come legame sociale, sulla verità.
L’uso dell’oggetto va nella stessa direzione del desiderio, del legame con l’esperienza sensuale della vita, il piacere che impregna tutta la nostra materia a partire dai sensi. Senza questo piacere, che vale ogni sforzo, la vita diventa fatica. Usare le cose del mondo, abitandole, per ricavare piacere dalla loro trasformazione che ci trasforma, è l’essenza del lavoro.

Il lavoro, l’alleato più importante del nostro desiderio (che ripudia l’indolenza) trova nell’immaginazione il suo sostegno più pregiato: gli consente di intuire dove la realtà si apre al suo uso, invece di sbatterci sopra. Desiderio e immaginazione spingono il soggetto del lavoro fuori dall’autismo esistenziale, lo estrovertono.
Senza la sua estroversione, che è gesto creativo, il lavoro è macchina che assorbe il lavoratore, una macchina senza materia, virtuale. Una parvenza di lavoro, un falso lavoro.

Parafrasando Sofocle, Desiderio e Lavoro dovrebbero essere le Leggi possenti del mondo. Il Primo Maggio, che celebra entrambi, è la festa di chi è vivo, la festa della vita contro la morte del desiderio.