«Alla fine dei Mille giorni il diritto del lavoro sarà totalmente trasformato e l’Italia sarà un Paese semplice, in cui investire o non investire». Una promessa, quella del premier ieri in conferenza stampa, indirizzata non solo al pubblico italiano (ormai sempre più impaziente per una ripresa che non arriva), ma soprattutto all’Europa, alla Ue e alla Bce: con Angela Merkel e con gli altri partner dell’Unione, con Francoforte, Matteo Renzi dovrà confrontarsi nelle prossime settimane, da leader del semestre europeo. Ma per chiedere più «flessibilità» sui conti, dovrà portare sul tavolo le famose «riforme» più volte invocate: quindi sulla delega del Jobs Act si dovrà accelerare, prima degli stessi 1000 giorni.

Per Renzi, che vorrebbe passare alla storia come il politico che “sblocca” l’Italia, appunto europeizzandola, il faro da seguire non può che essere quello della “capoclasse”: «Dobbiamo rendere il nostro mercato del lavoro come quello tedesco. La Germania è un modello in particolare su questo – ha spiegato ieri – Quando ci renderemo conto che un imprenditore non può morire di pastoie burocratiche per assumere una persona, l’Italia sarà finalmente un paese normale».

Il presidente del consiglio conferma quindi di voler riformare in modo profondo lo Statuto dei lavoratori, e in quello che non sarà solo un maquillage rischia di finire male, quindi, anche l’articolo 18. Ma per il momento il premier continua a glissare, insistendo con la formula che «non è quello il problema»: «Il dibattito estivo sull’articolo 18 è un evergreen», ha detto con una battuta, rispondendo ai giornalisti.

«In Italia i casi che vengono risolti con l’articolo 18 sono circa 40 mila – ha proseguito Renzi – e per l’80% finiscono con un accordo. Dei restanti 8000, solo 3000 circa vedono il lavoratore perdere. Quindi noi stiamo discutendo di un tema che riguarda 3000 persone l’anno in un paese che ha 60 milioni di abitanti. Il problema non è l’articolo 18, non lo è per me e non lo sarà».

Eppure le pressioni per modificare l’articolo 18 sono forti. Ieri Maurizio Sacconi, campione della battaglia per conto dell’Ncd, ha chiesto una correzione alla delega che presto verrà discussa in Parlamento (e proprio dalla Commissione Lavoro del Senato, che lui stesso presiede): «Il presidente del consiglio riconosce la necessità di riscrivere lo Statuto dei lavoratori, criterio che non è oggi compreso nella legge delega e che dovrà quindi essere introdotto», nota l’ex ministro del Lavoro.

L’Ncd mira a «produrre un nuovo Testo Unico il cui contenuto fondamentale è la disciplina del contratto a tempo indeterminato. La regolazione del recesso non interessa solo i pochi casi di contenzioso, ma tutti i datori di lavoro che hanno più di 15 dipendenti e i moltissimi disoccupati perché influenza la propensione ad assumere».

Apre alle riforme la Uil, con Luigi Angeletti: «Per noi è una cosa possibile – ha spiegato – Faccio osservare che anche con il governo Monti abbiamo, in qualche modo, modificato l’articolo 18. I sindacati sono dei riformisti per definizione».

Una «soluzione» per riformare l’articolo 18, togliendolo a una corposa fetta di lavoratori ma senza abolirlo del tutto, la offre Confimi Impresa (Confederazione Industria manifatturiera italiana e dell’impresa privata): «No all’abolizione dell’articolo 18, sì invece allo spostamento della soglia della sua applicazione dai 15 addetti attuali ai 35 – dice il presidente Paolo Agnelli – Questa modifica porterebbe alla fine delle paure della crescita per le piccole e medie imprese sotto i 15 dipendenti; alla fine dei motivi di nanismo di molte imprese; a eliminare l’uso fasullo dei co.co.pro; alla diminuzione del lavoro nero per gli eccedenti le 15 unità, al termine dell’utilizzo delle false partite Iva».

Dal fronte del Pd, il presidente della Commissione Lavoro Cesare Damiano (che a sua volta affronterà questo nodo nell’iter del ddl delega in Parlamento), cerca di spostare il dibattito dall’articolo 18 ai tanti contratti precarizzanti: «Gli ultimi dati Isfol danno ragione alla scommessa che come Pd abbiamo fatto insieme al ministro Poletti: far aumentare le assunzioni con l’apprendistato e il tempo determinato senza cannibalizzare il tempo indeterminato. Nel secondo trimestre 2014, il tempo determinato registra un +3,9%, l’apprendistato un +16,1% e il tempo indeterminato un +1,4%. Chiederemo al governo, nella delega, di disboscare la giungla delle modalità di impiego frutto della passata stagione di deregolazione».