Arrivato nell’area 70, con all’attivo 54 romanzi, 200 racconti e 350 milioni di libri venduti in tutto il mondo, Stephen King rappresenta un caso a sé nella moderna letteratura americana e anzi mondiale. È il solo scrittore di genere a cui ormai tutti riconoscano doti di eccellenza: non significa che tutti amino i suoi libri, ma anche chi li disprezza riconosce il suo talento, pur ritenendolo sprecato. È probabilmente l’autore più multimediale in circolazione: i film tratti dalle sue storie, a volte da lui stesso sceneggiati, basterebbero a occupare per intero un lungo festival del cinema; i serial tv, tratti dai romanzi ma in diversi casi originali, mai diretti ma spesso sceneggiati e prodotti, sono ormai quasi altrettanto numerosi; le sue storie hanno ispirato canzoni famose, videogiochi, serie di comics; suona da anni in una rock band, i Rock Bottom Remainders; ha aperto due radio, una dedicata al rock’n’roll, l’altra al baseball; approdato ai social, ha sbancato sia su Fb che su Twitter. Soprattutto, nessuno come lui è stato in grado di navigare in tutte le acque della letteratura popolare, con la sola eccezione del romanzo rosa.

Nato come autore horror, King ha esplorato, sempre con successo, sci-fi, fantasy, western, pulp, new age, gangster story, thriller, fondendo tutto in un unico, inimitabile stile: tanto semplice e diretto all’apparenza, perché consapevolmente determinato a essere alla portata di chiunque e a intrattenere chi legge (cosa che non può più dirsi dell’altro grande autore di genere americano, James Ellroy) quanto complesso e profondo se letto con maggiore attenzione. La sfida di King è sempre la stessa: raccontare la realtà in tutte le sue sfaccettature, arpionando l’interesse dei lettori con la potenza ipnotica delle sue trame e della sua scrittura ma lasciando poi a loro la scelta tra fermarsi sul piano del coinvolgimento immediato, la paura, la suspence, il divertimento, o scandagliare più a fondo quelle stesse storie. Il quasi settantenne ragazzo del Maine è stato spesso paragonato a Bruce Springsteen, un musicista che pesca senza requie nell’intero repertorio della musica popolare americana: in realtà la sua opera è più vicina a quella dei Grateful Dead, la band leggendaria e come King fluviale che miscelava rock, blues, jazz, country, folk e bluegrass non tanto per citare, omaggiare o riattualizzare ma per creare uno stile originale e unico.

Chi perde paga (Sperling & Kupfer, pp. 470, euro, 19.90), il suo ultimo romanzo (ma negli Usa è già in uscita una nuova raccolta di racconti, The Bazaar of Bad Dreams, ed è da poco in offerta un lungo racconto, Drunken Fireworks, disponibile solo in versione audiolibro) è un thriller, e assolve perfettamente alla missione di tenere chi legge col fiato sospeso fino all’ultimo. È il secondo volume di una trilogia, centrata sul personaggio di Bill Hodges, ex poliziotto in pensione già protagonista dell’ottimo Mr. Mercedes, che si concluderà l’anno prossimo con la pubblicazione del volume finale End of Watch. Solo che Hodges entra in ballo quando il libro è quasi a metà e non varcherà mai i limiti del comprimario, così come i suoi due bizzarri aiutanti, già personaggi centrali del romanzo precedente.
I protagonisti veri sono Morris Bellamy, sessantenne pluriomicida pazzo, appena uscito di galera, e Pete Saubert, adolescente e ragazzo d’oro che di Bellamy è l’opposto in tutto tranne che in un paio di non secondari elementi. Abita nella stessa casa dove viveva il pazzo prima di passare 35 anni nelle patrie galere. Come lui è prima di ogni altra cosa un lettore e, guarda caso, entrambi adorano lo stesso scrittore, John Rothstein, gigante conclamato delle lettere americane, passato a miglior vita nel 1978 dopo non aver pubblicato un rigo negli ultimi 18 anni.

Lo ha ucciso proprio Bellamy, per punirlo di aver ridotto il suo personaggio fisso, John Gould, da ribelle indomato a zelante pubblicitario ansimante per il successo, il soldo, una vita comoda. Di sfuggita il killer ha anche rubato al suo defunto ex idolo una montagna di taccuini riempiti nei 18 anni di apparente inattività: però non ha fatto in tempo a leggerli prima di essere ingabbiato per tre decenni e passa. Pete li ritrova in un baule sepolto, accompagnati dal discreto gruzzolo che il letterato, diffidando delle banche, si teneva incautamente in cassaforte. Soldini preziosi negli anni durissimi della Grande Recessione: spiccetti a paragone di quello che renderebbero i taccuini se venduti al collezionista giusto. Lo scopritore del tesoro, a differenza del maniaco, fa anche in tempo a leggere quelle parole d’oro. Sa, come i lettori a cui King confessa il segreto già nelle prime pagine ma a differenza del fan folle e omicida, che il genio assassinato si teneva nel cassetto gli ultimi due romanzi della serie, nei quali l’eroe vendutosi all’american way of life ritrovava se stesso, lasciandosi alle spalle casa, famiglia e lavoro ben pagato per tornare sulla strada. Proprio come nei sogni del più fedele e più deluso tra i suoi lettori, che lo uccide, in fondo, proprio perché non sa di quei due romanzi nascosti.

Negli anni ’80, King aveva svelato in due romanzi, Misery e La metà oscura, e un racconto lungo, Giardino segreto, i lati ombrosi, cupi e tormentati dell’esistenza e della mente di chi scrive per mestiere e vocazione. Aveva parlato, pur se come al solito dietro lo schermo di storie fantastiche e avvincenti, di se stesso. Ma Stephen King non è solo uno scrittore inesauribile: è anche un lettore insaziabile. Finders Keepers, come s’intitola nell’originale questo romanzo, parla dei lettori. Non di quelli casuali o anche moderatamente abituali, ma dei lettori ossessivi e avidi, quelli per cui i libri sono esperienze che incidono a fondo nella vita, e qualche volta diventano passioni brucianti. L’autore lo ha letteralmente riempito di citazioni, allusioni e rinvii ad altri libri, non per cedimento al pastiche postmoderno ma per restituire nel dettaglio il mondo a parte in cui vivono non le persone che leggono ma i Lettori: in tutta evidenza l’universo in cui avrebbe speso la vita Stephen King se non avesse ricevuto in dono, a differenza dei due protagonisti di Chi perde paga, il talento e la fantasia di un grande scrittore.

Quei doni, un’immaginazione inestinguibile, la dote spontanea del narratore nato, la capacità di adoperare il fantastico per descrivere il reale, King li ha affinati con gli anni. Li ha limati e resi più sottili, sacrificando in parte l’impatto brusco della trama a effetto per acquistare in profondità e senso delle sfumature, fino a impegnarsi, chissà se coscientemente, in una missione precisa.

Se Truman Capote si proponeva esplicitamente di trasformare il giornalismo in un genere letterario, lo scrittore di Bangor mira a fare dei generi popolari letteratura a pieno titolo, come quella che incanta e danna i protagonisti del suo ultimo libro, ma senza rinunciare mai a scrivere per tutti i lettori, inclusi quelli che vanno in cerca di semplice divertimento. È vero, il gioco non sempre gli riesce. Ma quando, come in questo e in molti altri casi, centra l’obiettivo Stephen King è impareggiabile.