A latere di un commento alla Commedia di Dante e della Scienza nuova di Vico, Gennaro Sasso dà vita a un corposo libro su Allegoria e simbolo (Aragno, pp. XV + 335, € 20,00). Eppure, nonostante questi due riferimenti “poetici”, Sasso sostiene immediatamente che anche riguardo il simbolo e l’allegoria, il «ricorso agli esempi» è «quasi sempre deplorevole». Sasso pone così subito la sua ricerca sulla strada del concetto e della teoresi dialettica. Una strada che sin da Hegel ha sempre considerato negativamente sia il simbolo sia l’allegoria (questa soprattutto), proprio perché la loro esemplarità sarebbe da un lato la manifestazione della loro insufficienza scientifica e dall’altro lato la manifestazione di una debolezza estetica. Seguendo tale tradizione di pensiero, alla fine non sorprende se anche Sasso ribadisce questi risultati.

Per Sasso il simbolo non è altro che l’esposizione del processo dialettico combinatorio di domanda e risposta, senza che mai la risposta sia però veritiera e adeguata alla domanda. Ciò comporta che la necessità di questo schema tenga artificialmente insieme due elementi che non si corrispondono teoricamente, scientificamente. Il simbolo, al di là della sua apparenza estetica, non compirebbe l’unità che vorrebbe produrre. Al suo interno rimarrebbe dunque una scissione. Per questo il simbolo, secondo Sasso, appartiene al mondo della doxa nel quale le cose non sono propriamente né vere né false, né ente né niente.

Per Sasso se il simbolo è l’unione di due elementi che rimangono alla fine incongrui, come una domanda attaccata a una risposta evasiva, l’allegoria è invece l’approfondimento di una risposta a un livello ulteriore. Se il simbolo è un passaggio che non arriva a compiersi, l’allegoria è invece un passaggio apparente giacché l’allegorizzato contiene già anche i livelli allegorizzanti che precedono. Così da un lato abbiamo carenza dell’analogia, dall’altro lato ridondanza.

Nel suo studio Sasso tocca appena l’antropologia, l’iconologia, la psicologia, la psicoanalisi le quali ai simboli hanno dato grande rilievo. Non tocca quasi per niente la semiotica e soprattutto la linguistica filosofica che affronta la questione del simbolo e dell’allegoria in tutt’altra maniera rispetto a quella dialettica e idealistica che invece caratterizza Sasso. Da questa prospettiva sembra difficile ragionare del simbolo fuori dal linguaggio e farne un tema direttamente teoretico. Se nel linguaggio si possono dire sia verità che falsità, tuttavia non c’è verità o falsità che possa esimersi dal dirsi nel linguaggio. In tal senso, prima che verità, falsità e opinione, il simbolo e l’allegoria sono manifestazione del linguaggio stesso e della possibilità che esso ha di significare. Stabilire la verità o falsità del simbolo significa implicitamente interrogarsi sulla verità o falsità del linguaggio nel suo complesso. Anziché stabilire se esista o meno una dimensione simbolica, è altrettanto importante, se non forse più proficuo capire in che modo tale dimensione si manifesti, in che modo il simbolo parli; e da qui se vi è un modo precipuo di parlare dell’allegoria rispetto al simbolo. Per analoghi motivi, invece che indagare in quale modo «sciogliere il significato» del simbolo e dell’allegoria, come Edipo davanti alla Sfinge, forse sarebbe più proficuo capire in che modo il simbolo e l’allegoria costruiscono la dimensione semantica.

Pur citandolo, Sasso decide di non approfondire Benjamin che in un certo modo si trova a ragionare sul simbolo e soprattutto sull’allegoria da una posizione post-idealistica analoga per molti versi a quella di Sasso (Benjamin cita Croce in un passaggio cruciale del suo Dramma barocco tedesco). Da Benjamin forse Sasso avrebbe potuto considerare che il linguaggio, proprio non facendo coincidere grammatica e parole nel significato, è per questo in grado di comunicare. In tale prospettiva il simbolo diventa il tentativo di stabilire la coincidenza nell’analogia, fino al punto di cancellare lo spazio tra langue e parole. Ma l’utopia assoluta del simbolo, quella di sovrapporre segno, significato e referente, non esaurisce tutta la dimensione analogica del significare. In tal senso, ciò che per Sasso è il «fallimento del simbolo» può indicare la riuscita dell’allegoria: la stessa dimensione irriducibilmente paradigmatica cioè esemplificativa del linguaggio. (Su questo aspetto Wittgenstein è cruciale). La possibilità che il linguaggio sia la stessa possibilità di rendere accostabili, transcodificabili lingue diverse, sistemi di segni diversi, codici diversi – inclusi quelli concettuale e dialettico.