Il primo tomo dei Quaderni neri di Heidegger, relativi agli anni 1931-1938 (Bompiani, pp. 702, euro 28) – tradotto da Alessandra Iadicicco – documenta un solitario pensare in atto, verso il superamento dell’esistenzialismo di Essere e tempo (che l’autore reputa inadeguato), dell’idealismo tedesco e di ogni scientismo: in pratica, della filosofia moderna e della sua metafisica, e dell’intera tradizione filosofica, che Heidegger vuole mettere in discussione nei suoi presupposti originari. Alla ricerca del cono d’ombra da cui ha origine il Logos occidentale, che ne è immemore, Heidegger destruttura la tradizione filosofica facendo della filosofia un domandare – un porre l’unica domanda sulla verità dell’Essere a partire dall’«esser-ci».

E il domandare non approda alla conoscenza di un concetto ma all’essere esposti «all’assalto dell’Essere», all’emergenza di un’Origine, di un inizio che non si coglie mai, che sempre si ritrae ed eccede, che rispetto a ogni pensiero è più inquietudine che fondamento. La filosofia non è, come voleva Hegel, «il tempo appreso in pensieri»; è pensare contro l’epoca, è un «secondo inizio» dopo quello dei presocratici, tradito da Platone fino ai nostri giorni.

L’incivile selvatichezza

Lungo questo cammino di «demolizione», di solitaria e incivile selvatichezza, Heidegger incontra il nazismo, che definisce come «principio barbarico», come la nuova «posizione fondamentale» che consente di porre la domanda sull’Essere, e quindi di accedere alla negazione dell’intellettualismo e della mediocrità piccolo-borghese, come la «risolutezza del rinunciare e del domandare» (a cui è rivendicato anche il Discorso del rettorato). Nel nazismo l’«esser-ci» prende dunque il corpo del popolo, e il filosofo solitario si scopre seguace del Führer. La filosofia è azione, e il «secondo inizio» è appunto il «nazionalsocialismo spirituale».

La disillusione di Heidegger è rapida. Il nazismo è presto reinterpretato come una «visione del mondo» tra le tante, come una riverniciatura del mediocre mondo civilizzato, come «materialismo etico» cioè come marxismo rovesciato, come regno della piccolezza e della bassezza, come «americanismo», e il popolo è ridimensionato al Man, all’esistenza inautentica. Nessuna discontinuità, quindi, ma anzi la continuità del mondo piccolo-borghese, plebeo, democratico-egualitario, moderno – e intanto Heidegger scatena una violenta polemica contro i suoi critici nazisti –.
I Quaderni ci mostrano poi Heidegger, ancora più solitario, teorizzare un «lungo e creativo tacere» e avviarsi verso le riflessioni sulla tecnica e sul nichilismo come verità della metafisica occidentale (in cui il nazismo viene inserito), su Nietzsche «non deturpato dai contemporanei» (cioè denazificato), e sui «venturi», i pochi che nella nuova storia comprenderanno radicalità della sua filosofia.

L’antisemitismo è qui più implicito che esplicito (nei Quaderni successivi si mostrerà più chiaramente); tuttavia Heidegger non rifiuta la tematica della razza ma lamenta semmai che il nazismo la tratti solo in modo biologistico e quindi non «spirituale». In ogni caso, è scioccante che l’essenza antiumana del nazismo non sia vista, che non faccia problema; che, benché l’adesione al nazismo non avvenga sulla base dell’antisemitismo, il «movimento» non appaia subito come ripugnante; che l’addio al nazismo (ma non al pregiudizio antisemita) sia motivato solo dal fatto che esso è moderno, interno alle logiche della tecnica e del progresso; e che la condanna della modernità sia emessa non a partire dal suo esito criminale ma dalla sua piatta mediocrità, dalla sua banalità, conseguenza dell’oblio dell’Essere.

Non certo da oggi ci si chiede come sia possibile che il pensatore capace di criticare la tragedia della vita quotidiana dei «piccoli uomini» non abbia visto la tragedia specifica indotta dall’antisemitismo proclamato dal nazismo. In realtà, come non si può dire che il nazismo di Heidegger sia un incidente biografico insignificante dal punto di vista teorico, un esempio della banalità del genio, così è sbrigativo sostenere che sia una grande «scorrettezza» politica, segno di un grande filosofare; ed è anche fuorviante affermare che l’antisemitismo sia la molla nascosta di tutto il suo pensiero.

Il dominio della modernità

Il problema è altro, teorico, e quindi ancora più grave. E sta nel fatto che la filosofia dell’Origine è autistica e indeterminata, priva di rapporti col mondo; e di conseguenza è indifesa davanti ai contenuti determinati in cui di volta in volta si imbatte; che la risolutezza demolitoria della «filosofia sulla filosofia» è vuota passività occasionalistica; e che Heidegger può essere portatore del pregiudizio razziale, e indifferente alle sue conseguenze, perché ha distrutto ogni possibilità di giudizio; per lui, la modernità è impresa di dominio perché è metafisico oblio dell’Essere, a cui si contrappone il risoluto domandare, il destrutturare: e tanto basta – e quindi gli è preclusa anche la negazione determinata del capitalismo come specifica forma di dominio.

Insomma, non è la filosofia ad adattarsi al pregiudizio, a venire dopo di esso per dargli una veste presentabile, ma è il pregiudizio ad accomodarsi in una filosofia che lo accoglie senza problema: una volta individuata filosoficamente la via della risolutezza, non importa a che cosa si sia risoluti; una volta identificata la modernità come supremo oblio e sradicamento, si lascia libero lo spazio per identificarne la figura più adeguata; e questa sarà, negli ultimi Quaderni, anche «l’ebraismo internazionale» come qui è il cristianesimo.

Prigioniero di se stesso

All’opposto filosofico, il giovane Hegel faceva dell’ebraismo l’emblema non della adeguazione ma della mancata conciliazione con la modernità, opponendolo al cristianesimo, capace di conciliarsi sviluppando dal proprio seno la filosofia. Ma mentre il pensiero di Hegel è progressivo, e non resta segnato dall’antisemitismo che ne è solo un tratto episodico e contingente, quello di Heidegger è tanto abissalmente indeterminato da non avere in sé la forza né l’intenzione di superare – se non, eventualmente, in esclusiva coerenza col proprio «domandare» – la contingenza che lo abita.
L’ansia di verità di Heidegger è muta o indifferente davanti alla più radicale non-verità (analogamente, anche il decisionismo vuoto di Carl Schmitt, pur non essendo mero travestimento del suo antisemitismo – autentico e costante –, non gli ha saputo evitare le trappole della contingenza storica).

Prigioniero di se stesso, come scrisse Hannah Arendt, che lo amò, passivo nella sua attività e gerarchico nella sua libertà, come scrisse Marcuse, che dopo il 1933 lo disprezzò pur riconoscendogli di essere stato da lui introdotto alla filosofia, Heidegger è rischioso fino all’aporia e all’assurdo se lasciato a se stesso, se non è letto con la consapevolezza che la filosofia non è esercizio da salotto o da talk show ma non è neppure domanda destrutturante posta nella solitudine più abissale e spettrale; che è relazione non solo con i venturi ma anche con i contemporanei; che vive nella città, insieme agli «ultimi uomini», anche se per separarsene, o per separarla e dividerla; che se non è una «visione del mondo», non è neppure un addio al mondo della comune umanità; che se la parola può darsi ormai solo come frammento, non può essere tanto criptica da risultare incomprensibile e da non saper comprendere la sofferenza del mondo (e anzi da fare del popolo più sofferente la figura della colpa filosofica dell’umanità).

Le domande del bambino

Scrive Heidegger nei Quaderni neri che una della due G del suo cognome significa Güte, «bontà, non compassione». Ecco che cosa manca al filosofo della Foresta Nera: la capacità di criticare il mondo ricercando che cosa ci fa «soffrire insieme agli altri», e che cosa ci fa agire insieme agli altri. Il «grande bambino che pone grandi domande», come egli definisce il filosofo, cioè se stesso, restò aggrappato a quelle domande e non volle darsi risposta, e quindi non seppe crescere e agire come uomo fra gli uomini. Perché il Male non potesse più abitare nella solitudine della sua filosofia, questa ha dovuto essere urbanizzata e civilizzata da altri: meno grandiosamente radicali, ma consapevoli che pensare contro la filosofia non può equivalere a pensare contro l’uomo