La cultura popolare è da sempre affollata di storie favolose e improbabili, che però riescono non tanto a essere davvero credute e prese per vere ma ad orientare e giustificare altre scelte che non avrebbero alcuna giustificazione. A dirla tutta, questa dinamica non riguarda solo le credenze popolari. Infatti, più in generale, non c’è come una credenza sciocca e infondata a rendere sicura una persona. Il motivo per cui ci si affida alle fiabe non è, però, la facile credulità.

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Come ci si potrebbero riempire testa e coscienza di frottole e poi condurre una vita normale e sensata? Certamente è vero che le favole aiutano a produrre quei meccanismi di autoillusione che mettono al riparo dalla delusione e che proteggono anche dalla compagnia della paura. Tuttavia non è per faciloneria che si aderisce al racconto mendace. Si pensa, invece, magari del tutto inconsciamente, che se qualcuno si è dato la pena di creare una fiaba, una leggenda, una favola – la si chiami come si preferisce – un motivo più importante della verità debba esserci; un motivo che serva ad affermare un principio, un valore, e spesso un potere che li controlli e custodisca. Alla gente piace raccontare le cose per apologhi, e preferisce in genere che le cose siano narrate nello loro forma simbolica o metaforica.
Come si spiegherebbe, altrimenti, la fiducia che da sempre l’umanità investe nei sogni, fossero segni e presagi o solo immagini della mente? Le fiabe e le favole, si pensa, contengono un simile messaggio o significato occulto, esigono un’interpretazione e anche se si sbaglia tutto nel farla, esse mantengono intatte la loro funzione di guida.

Questo è ciò che accadeva in altre epoche. Ai tempi in cui la fiaba e il sogno rimanevano legati al campo della narrazione, cioè nell’area letteraria del racconto e dell’elaborazione verbale dell’immagine. Forse prima dell’invenzione della comunicazione di massa e prima della società dell’informazione. Perché quando la favola entra in questi circuiti, cambiano le modalità con cui la favola collabora con la verità e con l’opinione.
Il libro di Stefano Pivato, Favole e politica. Pinocchio, Cappuccetto Rosso e la Guerra fredda (Il Mulino, pp. 188, euro 19) sembra per lo più indagare in questo territorio sufficientemente ibrido, in cui cioè la favola, intesa come retaggio e strumento di trasmissione di una sapienza antica, non è più favola ma è convertita e contaminata negli strumenti e nelle modalità della comunicazione.

Più precisamente l’autore, uno storico che ha dedicato numerosi studi alla cultura di massa (il turismo, la canzone, la politica e anche un soggetto ben più insolito, cioè la rumorosità della civiltà moderna) sceglie il terreno della propaganda politica e focalizza preferibilmente gli anni compresi tra la fine della seconda guerra mondiale e la nascita della televisione.
Le fonti e il materiale sono assai vari. Si va dalla satira politica alla cronaca sportiva, dalla falsa notizia dei giornali alla circolazione orale delle leggende, e naturalmente, come indica il titolo del saggio, alla riutilizzazione in ambito politico della fiaba.

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La stessa eterogeneità dei materiali presi in analisi fa pensare al fatto che nel contesto della propaganda politica, i cui spazi sono definiti dai mezzi e dai luoghi della propaganda, la riutilizzazione spregiudicata di narrazioni e figure tratte da altri contesti non va troppo per il sottile: ogni storia e ogni personaggio può essere arruolato nell’agone politico.
L’importante è che la contesa del voto, che passa anche per la formazione della coscienza e dal sistema di aspettative, si appropri delle immagini e delle parole che sono presenti e circolano tra le persone da convincere. Il messaggio politico vuole inglobare ciò che sta già nella testa delle persone e piegarlo ai significati che vuole veicolare. Senza esagerare, si può dire che la comunicazione politica ruba e vandalizza la memoria di ciascuno, la memoria di tutti, a fini elettorali.

Ecco perché Pivato può raggruppare ricerche che apparentemente sembrano definire diversi argomenti e contesti. Le immagini familiari dell’orco o dell’uomo nero, come a ricreare un terrore irrazionale; la competizione sportiva tra Bartali e Coppi, declinata in una sfida senza alcuna correttezza tra i simboli della famiglia; la riutilizzazione spietata delle Avventure di Pinocchio da parte della propaganda fascista e democristiana, ma anche la revisione in Chiodino della figura dell’automa nelle pagine del Pioniere, la rivista per bambini di ispirazione comunista diretta da Gianni Rodari; la fomentazione di leggende metropolitane createsi sulla distorsione di altre storie, come l’abbeverarsi dei cavalli cosacchi a San Pietro, ripresa dal quel grande canzonatore che fu Giovannino Guareschi; la creazione di miti sociali, come la pedagogia felice nell’Unione sovietica e, al rovescio, la terribile menzogna dei comunisti mangia bambini.

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Tutte situazioni ricostruite con precisione nel loro prodursi e diffondersi in un’Italia apparentemente ingenua, infantile, istruita con superficialità. E si può dire, infine, imbrigliata in una grande contraddizione. Quella di essere obbligata ad ascoltare ciò di cui è sempre desiderosa: le favole.