Il fatale emendamento petrolifero di Federica Guidi non rivela soltanto una miserabile storia di interessi privati in pubbliche funzioni, di indegne corruttele, di ingordi accaparramenti, di parassitismi servili, di favoritismi, clientelismi e meschinerie varie.

Dietro la sua spregiudicata e insistita inclusione nella legge di stabilità traspare nitidamente la rovinosa strategia economica di tutti i governi italiani che si sono avvicendati tra un secolo e l’altro. Berlusconi, Prodi, Monti, Letta, Renzi, e diversi altri prima di loro.

Nel suo scarno e burocratico linguaggio, quell’emendamento esemplifica un modello di sviluppo basato sul danneggiamento progressivo della natura, da prolungarsi fino a stremare tutte le risorse ambientali. Fino all’ultima goccia di petrolio. Fino all’ultimo soffio di metano. Un’avidità accumulatoria, uno sfruttamento feroce, un impulso devastante, una smania distruttrice. Per poi lasciare i territori al loro destino desertificato.

Siamo in Basilicata, terra ancora largamente selvaggia, anzi selvatica. Un paese quasi perfetto, recita un delizioso film attualmente nelle sale. È una riserva naturale della nostra smozzicata e scrostata Italia. Ebbene, in uno dei suoi nuclei incontaminati, lungo le valli racchiuse tra le montagne del Potentino, le ultime creste del Cilento e le prime cime del Pollino, da decenni si estraggono idrocarburi. Frantumando la crosta profonda per farne sprizzare olio combustibile o ansimare gas naturale.

Successivamente incapsulati nei due impianti di raccolta, uno a Viggiano, in Val d’Agri, e l’altro in Val di Sauro, l’ormai noto Tempa Rossa. E poi dirottati nei tubi di un lungo oleodotto che finisce la sua corsa nel girone degli inquinati, a Taranto, dove viene infine stivato nelle petroliere, per andarsene in giro per i mari del mondo.

La produzione petrolifera lucana assicura il fabbisogno energetico nazionale tra l’8 e il 15% (un’oscillazione che dipende dalle diverse fonti: se più rigorose o se più compiacenti). È la più estesa e voluminosa piantagione idrocarburica di terraferma in Europa. Prende impulso negli anni successivi al terremoto del novembre del 1980. E nei decenni dissemina di pozzi l’intera regione. Fino agli ultimi generosamente concessi, che si sono arrampicati fin sulle colline che circondano il Monte Vulture, scavando e perforando accanto ai filari dell’Aglianico, uno dei rossi italiani più prestigiosi, un vino di caratura internazionale.

Ma è nella Valle dell’Agri che si registra la maggiore concentrazione di impianti. In una morbida e assolata vallata, coltivata da secoli e da secoli popolata da mandrie e armenti. C’è un’agricoltura d’eccellenza e un allevamento pregiato. Ci sono i fagioli di Sarconi, le melanzane rosse di Rotonda, i peperoni gialli di Senise; c’è la vacca podolica, il caciocavallo più buono del mondo e le soffici mozzarelle d’altura. C’è anche un meraviglioso (quanto insolito e misterioso) sito archeologico: Grumentum. Tutto ciò convive faticosamente con i pozzi, le autobotti, le raffinerie, e purtroppo sembra destinato a soccombere.

È come se tutti quei pozzi, decine, centinaia, succhiassero il midollo vitale di quella valle, via via impoverendo e scarnificando la terra, offuscando e contaminando l’aria. E non casualmente proprio quell’area produttiva è attualmente sotto inchiesta da parte della procura di Potenza. I reati ipotizzati sono smaltimento illegale delle scorie di lavorazione e inquinamento atmosferico, con tanto di arresti, incriminazioni e avvisi di garanzia; e tra i coinvolti c’è ovviamente anche Gianluca Gemelli, il compagno dell’ex ministra Guidi, imprenditore petrolifero di risulta, efficiente intermediario al servizio delle grandi compagnie.

Da qualche anno la ricerca si è poi spostata nella contigua Valle del Sauro, dove per la considerevole quantità di greggio si è reso necessario realizzare un nuovo centro di raccolta, per l’appunto a Tempa Rossa. Un impianto che sorge su un territorio mosso e aspro, ora roccioso, ora verdissimo, a scarsa densità insediativa.

È uno di quei gioielli naturali incontaminati, che sono rimasti tali proprio perché la mano umana, per caso o per ragione, si è sempre tenuta alla larga. Vi hanno trovato rifugio nel passato le bande dei briganti e oggi si aggirano solo pastori e boscaioli. Ma nel complesso quei monti e quelle foreste sono disabitati, frequentati semmai da falchi e gatti selvatici, cinghiali, volpi e perfino lupi in branco. All’incirca, la vita da quelle parti scorre come quella descritta in Cristo s’è fermato a Eboli di Carlo Levi, che consumò il suo confino proprio ad Aliano, uno dei paesi che rispettosamente circondano quell’area, senza tuttavia mai azzardarsi a sconfinare.

Di fronte a questo stridore, a questa incompatibilità, di fronte al confliggere tra opposte civiltà, viene da chiedersi se c’è davvero una ragione preminente nel volersi assicurare (ancorché parzialmente) una riserva energetica, pur se a scapito di un equilibrio ecologico, un’economia locale, una condizione umana sostenibile. Davvero abbiamo bisogno di gas e petrolio, e dunque d’inquinare irrimediabilmente terre, mari, cieli e la nostra stessa salute, oltreché arricchire ulteriormente, anche corrompendo e truffando, chi già detiene patrimoni produttivi e finanziari stratosferici?

Insomma, che senso ha investire in un settore destinato a esaurirsi e necessariamente a contrarsi, per far posto ad altre fonti d’energia? Oppure, prima che questo modello tramonti definitivamente siamo cinicamente autorizzati a raschiare gli ultimi barili lucani e chissenefrega della Basilicata?

Del resto, come si fa a contrapporre i «fili d’erba» di Rocco Scotellaro ai fieri e svettanti pozzi di petrolio del signor Total o del signor Shell? È una battaglia persa, per quanto molti possano essere affascinati dalle battaglie perse e continuino a battersi per salvare la marmotta del Pollino o la fragola di Metaponto.

Un paese intelligente e con la schiena dritta avrebbe da tempo abbandonato la via idrocarburica al progresso e dirottato le proprie risorse alla ricerca e alla produzione di energia alternativa. Invece siamo ancora qui a scavare petrolio per conto terzi: sciocchi, subalterni, servili. E corrotti.
E lo faremo ancora, almeno finché avremo ministri come Federica Guidi. Che dopo aver assicurato appalti milionari ai suoi affetti, travolta da accuse e contumelie e forse da un tantino di vergogna, nella sua lettera di dimissioni dice d’aver agito «in buona fede». Sarà sconcertante, ma lei è davvero convinta che solo all’ombra dei pozzi di petrolio ci sia crescita e sviluppo: e per raggiungere questo scopo, non c’è etica o opportunità in grado di frenarla. Nella sua attardata e modesta cultura industrialista proprio non riesce a capire come ci possa essere qualcosa di meglio che sporcarsi le mani di nero.

E come lei, la gran parte dei politici, degli imprenditori e perfino di qualche sindacalista.
Con tutti costoro abbiamo tuttavia un appuntamento, tra un paio di settimane.

Quando andremmo a votare sì al referendum contro le trivelle petrolifere. Ecco, questa potrebbe non essere una battaglia persa.