Forse c’è solo una capitale europea in cui la vittoria nettissima dei no in Grecia è stata accolta peggio che a Berlino e Bruxelles: Roma, palazzo Chigi. In privato, il premier stramaledice i greci, vaticina un foschissimo futuro per Alexis Tsipras e per il Paese che non se ne è sbarazzato come suggerivano Angela Merkel e, a seguire, lui stesso. Ma quando, dopo il colloquio mattutino con il ministro dell’Economia Piercarlo Padoan, il capo del governo italiano ritrova la favella, affidandosi stavolta a Facebook, di tanto livore c’è appena una traccia indiretta. La Grecia è «un Paese in condizione sociale ed economica molto difficile», per il quale «gli incontri di domani dovranno indicare una via definitiva per risolvere questa emergenza».

Nemmeno una sillaba sull’odiato referendum. Quanto di più gelido e distante si possa immaginare. In compenso Renzi si dilunga sul «secondo cantiere», quello sì «ancora più affascinante e complesso, ma non più rinviabile». Trattasi di modificare dalle fondamenta la struttura dell’Europa: «Politica: non solo parametri. Valori, non solo numeri».

Sono parole. In realtà Renzi sa perfettamente di essere condannato a giocare un ruolo nella migliore delle ipotesi marginale. L’auspicata vittoria dei sì gli avrebbe aperto la possibilità di proporsi come grande mediatore. Lo schieramento troppo esplicito a fianco della Merkel, l’incredibile errore commesso con l’infelice tweet sul «referendum tra euro e dracma», gli sbarrano ora quella via. Il direttorio franco-tedesco prova a ripartire e serve a poco rivendicare, come fa palazzo Chigi, l’aver imposto un vertice dell’eurogruppo, quello di oggi, che non sarebbe in nessun caso stato possibile evitare.

Ma soprattutto, quel che impedisce a Renzi e all’Italia di esercitare una qualche influenza sulle dinamiche europee è la strategia che il premier ha adottato dopo il fallimento totale del miraggio con cui era arrivato al governo: creare e capeggiare un fronte mediterraneo anti-rigore. Persa in poche mani iniziali quella partita, l’Italia non ha trovato di meglio che ripararsi sotto l’ombrello della cancelliera Merkel, con l’obiettivo di ottenere, per sua grazia e come premio per l’obbedienza dimostrata, un allentamento dei parametri non l’anno prossimo ma nel 2017.

Discorsi stentorei a parte, questa e solo questa è la strategia europea del governo Renzi. E’ una strategia che il referendum greco mette, se non ancora in serio pericolo, senza dubbio a rischio. Per il premier, l’incontro chiave nella fitta giornata di ieri è stato quello con Padoan. Il ministro dell’Economia è rassicurante: l’ombrello di Draghi funziona, i fondamentali sono a posto, le riforme invocate dall’Europa sono in corso d’opera. Ma proprio quella Grexit che l’inquilino di palazzo Chigi ha tanto incautamente invocato rischia di mandare tutto a gambe all’aria. La manovra di settembre già si preannuncia tutt’altro che facile e leggera: arrivarci con una tempesta partita dall’Egeo alle spalle renderebbe tutto infinitamente più difficile.

Tutto senza contare il fronte interno. Per il governo l’aspetto più bruciante della sberla greca è quello. L’incontro di ieri mattina con i capigruppo Zanda e Rosato è stato eloquente. Se il velocista di palazzo Chigi chiede di accelerare ulteriormente sulla sua agenda, è perché sa benissimo che l’onda della Grecia non rafforzerà solo i suoi nemici all’opposizione (M5S, Sel e Lega) ma anche quelli più insidiosi interni al suo partito.

C’è un’ultima nota dolente. La suona il solitamente silente capo dello Stato. E’ stato Sergio Mattarella, domenica sera, a insistere per un messaggio non ostile alla Grecia, e che anzi moltissimi hanno letto come un sostanziale appoggio a Tispras. Parole molto diverse da quelle, ben più dure e sprezzanti, che avrebbe auspicato Renzi.