Sangue per terra, una luce intermittente che illumina il massacro, scarpe senza padrone: è quanto resta di un matrimonio kurdo in una sala da ballo nel villaggio di Tall Tawil, nella provincia settentrionale di Hasakah, devastato lunedì notte da un kamikaze dello Stato Islamico. Almeno 34 i morti, un centinaio i feriti: un bilancio molto simile a quello del 20 agosto quando un attentatore suicida si era fatto esplodere ad un altro matrimonio kurdo, stavolta a Gaziantep, nel sud della Turchia.

Quella strage era stata usata dal presidente Erdogan per invadere il nord della Siria con la scusa di fermare l’Isis. Questa provocherà molto meno “sdegno”: dopotutto Hasakah è considerata dai kurdi siriani la capitale della regione di Rojava e del progetto del confederalismo democratico dei cantoni, la bestia nera di Ankara. Il Coordinamento Generale di Rojava ha indetto tre giorni di lutto e promesso di eliminare la minaccia islamista: le forze kurde sono state in grado di cacciare l’Isis da buona parte della provincia, ma sacche di miliziani si dimostrano ancora in grado di colpire con attacchi dinamitardi e kamikaze.

Contro di loro la Turchia non interviene nonostante i poteri che si è auto-attribuita: sabato scorso il parlamento ha esteso di un altro anno il mandato per usare le truppe all’estero, in Iraq dove operano dal luglio 2015 e in Siria, in entrambi i casi in chiave anti-kurda e anti-Pkk. In casa è stato invece estero di altri tre mesi lo stato di emergenza indetto dopo il tentato golpe del 15 luglio.

Hasakah pare lontanissima da Aleppo, dove un’altra quotidiana strage si consuma. Ad Hasakah il nemico è lo Stato Islamico, entità radicata ma dimenticata visto che i due fronti avversari non la nominano più, se non in dichiarazioni di circostanza. Nessuna soluzione politica si è cementata intorno alla minacca comune, che al contrario per molti attori regionali – le petromonarchie del Golfo – non è che un elemento in più di instabilità, quella necessaria a far collassare la Siria come Stato nazione.

Qua sta la centralità di Aleppo dal punto di vista militare: i civili sono ostaggio di due opposte agende che Mosca e Washington per qualche tempo hanno fatto finta di condividere. Così non è: da una parte sta il fronte pro-Assad intenzionato a mantenere unito il paese sotto la propria autorità, dall’altra quello anti-Assad che punta alla frammentazione settaria.

La rottura diplomatica ufficiale (quella ufficiosa era già chiarissima) che si è consumata lunedì sera ne è la prova definitiva: gli Stati Uniti hanno annunciato la sospensione del dialogo con la Russia ai fini del cessate il fuoco – si badi bene, non del negoziato politico – accusando Mosca di aver violato i termini dell’accordo del 9 settembre. I russi reagiscono: la tregua è solo il mezzo per permettere alle opposizioni di riorganizzarsi.

Ovvero, per mantenere lo status quo. Poco importa che la popolazione soffra in modo indicibile: se Aleppo resta sospesa, la guerra civile resta sospesa e con lei le possibilità di ricostruire la Siria come entità unita.

Il timore ora è che la chiusura diplomatica apra ad un’ulteriore escalation del conflitto: l’arrivo di nuove e più potenti armi, come già prospettato dalle opposizioni (le consegne dal Golfo sarebbero già partite dopo il via libera della Casa Bianca) e un maggiore intervento occulto statunitense che trasformerebbe la guerra fredda in corso con la Russia in scontro aperto.

In mezzo provano a infilarsi attori minori: ieri la Francia e la Spagna – a riprova dell’inesistenza dell’Unione Europea – hanno presentato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu una bozza di risoluzione per una tregua in Siria. Mosca l’ha subito bollata come inutile e l’Onu resta a guardare: all’inviato speciale per la Siria, Staffan de Mistura, non rimane che dirsi preoccupato per la decisione Usa di sospendere il dialogo.

Il segretario di Stato Usa Kerry prova a calmare le acque dicendo che la ricerca della pace non sarà abbandonata e che Washington continuerà a discutere della crisi siriana con Mosca. Un po’ di confusione o forse una mera strategia di mantenimento dell’attuale “equilibrio”, pagato solo dal popolo siriano.

Sul campo la battaglia prosegue: le forze governative e le milizie a loro sostegno, libanesi e iraniane, avanzano verso i quartieri est occupando una serie di edifici nel distretto centrale di Suleiman al-Halabi. Gli scontri sono quotidiani: a est cadono le bombe del governo, a ovest i missili e i mortai pieni di esplosivo delle opposizioni, con morti civili da entrambe le parti. Nelle ultime due settimane sarebbero oltre 400 le vittime tra la popolazione della città, centinaia i feriti.