La mattina del 18 marzo 2015 – al Museo nazionale del Bardo di Tunisi – devono aver tremato, su piedistalli di eterna gloria, divinità puniche e imperatori romani. E l’Africa antica, tutta specchiata in mosaici dallo splendore sempre vivo, si è macchiata del sangue del terrorismo islamico.

L’ASSALTO CHE QUEL GIORNO di imminente primavera ha sorpreso centinaia di turisti nel famoso museo maghrebino ha lasciato un’eco sinistra nel Palazzo del Bey: ancora nel primo anniversario della strage, si potevano notare – su pareti e vetrine – le raffiche dei kalashnikov impugnati dai due giovani militanti dello Stato Islamico che, in nome della guerra di civiltà, hanno spento la vita di ventidue persone. Tra le vittime ventuno stranieri, approdati sulla stessa riva di Didone con la certezza di incontrare una terra accogliente e generosa. A più di un anno e mezzo dal tragico evento che, assieme all’attacco fondamentalista sulla spiaggia di Sousse del giugno 2015, ha gettato la Tunisia in una disastrosa crisi economica, il Bardo prova a ricucire le due sponde del Mediterraneo con una rassegna intitolata Lieux saints partagés. Fino al 12 febbraio 2017, l’esposizione aspira a smontare i pregiudizi e a cingere le grandi religioni monoteiste in un abbraccio non solo immaginario. Prodotta dal Musée national des civilisations de l’Europe et de la Méditerranée (Mucem) di Marsiglia, dove è stata presentata tra aprile e agosto 2015 con enorme successo di pubblico, la nuova versione della mostra nasce dalla collaborazione tra il Mucem, l’Institut National du Patrimoine di Tunisi e il Museo del Bardo.
A ciascuno il suo dio, i suoi libri sacri, i suoi santi, secondo una declinazione che mira però ad unire anziché dividere. Partendo da questo presupposto, la nutrita equipe di curatori (Nejib Ben Lazreg, Dionigi Albera, Manoël Pénicaud e Isabelle Marquette) coadiuvata da Hassan Arfaoui, Taher Ghalia, Fatma Naït Yghil e Mikaël Mohamed, ha ideato un circuito che consta di centocinquanta opere fra reperti, foto e apparati multimediali realizzati con un approccio antropologico.

L’ALLESTIMENTO scenografico di Amani Ben Hassine Khadraoui prende forma negli appartamenti del Petit Palais, gioiello di architettura domestica in seno al Bardo. Costruito durante il regno del bey Hussein II (1824 -1835) come dono per una delle figlie, l’edificio è un mélange di influenze tunisine, andaluse e turche. Qui – nella cornice di faïence e stucchi – oggetti archeologici e testimonianze etnografiche locali, rivelano credenze e riti condivisi fin dal principio tra gli adepti dei tre monoteismi. Un candelabro in rame, una lucerna cristiana a triplo beccuccio e la sublime lanterna islamica d’Al-Mu’izz, illustrano il tema della luce, uno degli assi portanti dell’esposizione assieme all’acqua, ai segni e agli amuleti. L’area tra il patio e la Sala di Sousse ospita invece un focus su Maria, figura a metà tra paganesimo e cristianesimo ma citata ben trentaquattro volte anche nel Corano, che la eleva a simbolo della fiducia in Dio.

Così ecco comparire – una accanto all’altra – una dea madre di epoca romana, una Vergine con bambino e una creazione del pittore-calligrafo Abdallah Akar raffigurante le sure dedicate alla madre di Gesù. Infine, la Sala di Sousse è riservata alle pratiche devozionali transfrontaliere che si esplicano in diversi luoghi santi del Medio Oriente nonché in Egitto, Turchia e Lampedusa. Non manca, naturalmente, l’esempio tunisino con la sinagoga della Ghriba a Djerba, sulla cui soglia sia ebrei che musulmani si sfilano le scarpe prima di pregare. Un percorso forse spiazzante, che riconduce – anche per il significativo contesto nel quale si dipanano – alle comuni radici dei popoli mediterranei, da far ricrescere proprio là dove qualcuno ha voluto violentemente reciderle.

Particolare di un mosaico esposto al Museo del Bardo (II sec. d.C.)
Particolare di un mosaico esposto al Museo del Bardo (II sec. d.C.)

Da marzo 2016 è inoltre disponibile una nuova guida del Museo del Bardo. Il titolo Un monument, un Musée. Je suis Bardo ricorda, da un lato, il motto con cui i social media hanno espresso solidarietà alla Tunisia per il vile attentato, dall’altro l’attaccamento a un’istituzione centenaria che custodisce le testimonianze di alcuni passaggi chiave della storia del Mediterraneo. Edito dall’Agence de mise en valeur du Patrimoine et de Promotion Culturelle di Tunisi per la cura di Samir Aounallah, il volume consta di quasi cinquecento pagine a colori e riunisce i contributi di numerosi studiosi tunisini e internazionali. La dedica è alla memoria dei «martiri, elencati in una triste lista di cui fanno parte – oltre ai turisti provenienti da nove paesi – un luogotenente della Brigata tunisina anti-terrorismo e Akil, il cane che ha partecipato al blitz in cui sono stati giustiziati i due responsabili della carneficina.

STAMPATO IN GRANDE formato (esiste tuttavia un’edizione più maneggevole), il libro si è reso necessario per illustrare il nuovo percorso espositivo del Bardo inaugurato nel 2012 dopo i lavori di ristrutturazione finanziati dalla Banca Mondiale. Tra le novità più rilevanti l’ampio spazio dedicato a una scoperta che ha segnato la nascita dell’archeologia subacquea. La sala denominata «L’épave de Mahdia» ospita gli oggetti rinvenuti in un relitto greco apparso all’improvviso agli occhi di alcuni pescatori di spugne al largo di Mahdia, perla incastonata nella costa orientale della Tunisia. Era il 1907 e solo un anno dopo, Alfred Merlin intraprese un primo scavo del giacimento sotto l’egida dei Servizi di Antichità. Fu poi il celebre pioniere degli abissi Jacques-Yves Cousteau a riprendere le ricerche nel 1948, finché – nel 1993 – una squadra di tecnici tunisini e tedeschi completò lo studio delle rovine immerse. Quelli che oggi si possono ammirare nella leggerezza di un allestimento moderno, sono reperti di straordinaria qualità restaurati con il contributo della Germania. L’imbarcazione, che naufragò sul finire del I secolo a.C. nei pressi di Mahdia dopo aver lasciato Atene, era diretta in Italia. Il suo carico comprendeva opere d’arte elleniche, probabilmente saccheggiate da Silla nell’86 a.C. Notevoli i letti triclinari in legno e bronzo (klinai) eccezionalmente conservati tanto da sembrar usciti da una villa Liberty e capitelli e candelabri monumentali in candido marmo. Ma ciò che attira di più l’attenzione è la superba serie di figurine ornamentali in bronzo: Hermes minuti, nani danzanti e amorini esprimono la grazia di un tempo sospeso nell’incanto. Anche la Sala della civiltà punica, la quale accoglie le peculiari stele con crescente lunare consacrate a Tanit e il pantheon di terracotta di tre santuari del Cap Bon, gode ora di una superficie ariosa.

L’UNICITÀ DEL BARDO resta però legata alla sua immensa collezione di mosaici romani e paleocristiani. Solcati da fasci di luce grazie alle modifiche apportate nel Palazzo del Bey, questi capolavori di artigianato africano che conquistarono l’Impero, raccontano la vita quotidiana e le fantasie di un popolo rude eppure amante del bello. Bestie da anfiteatro, gladiatori e pugili si alternano a figure del mito e della letteratura quali Ulisse e Virgilio. Scenari agricoli e trionfi di divinità marine pullulano a perdita d’occhio tra tessere di mille colori. In questo caleidoscopio si è perso lo sguardo di coloro che, in quel funesto marzo, non hanno visto arrivare la primavera. Ma per i caduti del Bardo e di tutti gli atti terroristici che hanno travolto anche di recente il continente europeo, non bastano cordoglio e cerimonie. Serve piuttosto il coraggio di guardarsi l’un l’altro, per riconoscersi quali abitanti di un medesimo sogno di uguaglianza e libertà.