Che la riunione dei responsabili delle vendite di una casa farmaceutica inizi con la frase «Come va oggi il mercato delle leucemie?», è pura routine, niente affatto una trovata da film sul cinismo dei mercanti della salute. I venditori parlano direttamente di malattie e non di farmaci, per quella mancanza di etica che è frutto dell’obiettività: le malattie muovono le vendite più dell’efficacia dei farmaci che dovrebbero curarle. Più ci si ammala, più si vendono farmaci, perché chi si ammala ne fa necessariamente richiesta, nella speranza (a volte fondata, a volte no) o nell’illusione (che non ha bisogno di essere fondata) che possano servire.

Il paradosso di cui il mercante farmaceutico si fa, dal suo punto di vista, carico, è che più i farmaci funzionano più le malattie diminuiscono, così si vende e si guadagna di meno. Di fatto il mercato della salute deve evitare che i pazienti muoiano o guariscano presto. Sempre più malati in vita, o malati a vita, è il sogno, per nulla proibito, di ogni imprenditore della salute. La prevenzione delle malattie, se non richiede l’uso di sostanze, è controproducente. Dove è possibile (spesso nel campo psichiatrico), la malattia si inventa e se ci sono condizioni che la favoriscono è meglio non stracciarsi le vesti (per l’industria farmaceutica i mali non vengono mai per nuocere).

Essere malati (di qualsiasi cosa, «basta che funzioni») sta diventando, nostro malgrado, cosa a sé dissociata dalla condizione di sanità.

Una preoccupazione permanente che rappresenta una delle chiavi del nostro inserimento impersonale nel registro dei rapporti di scambio mercificanti. La malattia si sta imponendo come fattore di stabilità e questo fa delle cure/non cure mediche un organizzatore potentissimo della vita sociale.

Le implicazioni per la medicina, non ancora in primo piano ma in piena evoluzione, potrebbero essere devastanti: la spersonalizzazione estrema del rapporto con il paziente, la sostituzione della cura con la fornitura di assistenza pura (l’equiparazione culturale/psicologica delle persone con gli elettrodomestici della loro casa), la sostituzione dei medici stessi con dispositivi informatici altamente specializzati (sono già in progettazione applicazioni da smartphone che dovrebbero mandare in pensione il medico personale).

La possibilità di profitti esponenziali gioca un ruolo nella trasformazione della medicina in strumento di conservazione tendenziale dello stato di malattia, che sposta silenziosamente gli investimenti verso le terapie di mantenimento. Tuttavia, i profitti non sono sufficienti da soli a spiegare la perversione generalizzata del rapporto con la salute e la riduzione tendenziale dei dispositivi terapeutici in strumento compiuto di potere puro.

Esiste in ognuno di noi una dimensione psichica in cui lo stato di malattia (reale, potenziale o immaginario che esso sia) è dissociato dal suo decorso e sospeso nel suo esito. Investito narcisisticamente, produce un senso segreto di soddisfazione perché crea la fantasia di una separazione dal mondo reale e le sue frustrazioni, favorendo l’illusione di un mondo centrato su di sé. Il narcisismo è rinforzato dal masochismo che ogni malattia implica: la sfida al dolore e al pericolo di morte o di menomazione che, investita libidicamente, contrasta il desiderio di guarigione e il piacere di vivere.

La sinergia tra una società che produce profitti e una società di invalidi, nella quale essere sani non si distingue in nulla dal sopravvivere, è in cammino e i «governi dei cittadini» dormono tranquilli, fino a quando a suonare la sveglia non sarà l’incubo.