Sono passati solo due anni e mezzo da quando papa Francesco ha aperto il suo «cantiere ecclesiale» e il crescente consenso nella comunità dei fedeli sembra dare ragione al processo di riforma. In tempi di crisi il discorso del papa tocca le corde sensibili, parla a tutti e diventa un punto di riferimento per la società. L’antologia dei discorsi pubblicata da Jaca Book (Pastorale sociale) è dunque uno strumento prezioso per ripercorrere la genealogia del linguaggio di Bergoglio e studiarne l’evoluzione dalla seconda metà degli anni Settanta. Per una lettura critica di questi testi si può fare riferimento a altre due pubblicazioni recenti: l’agile volume di Diego Fares, Papa Francesco è come un bambù (La Civiltà Cattolica), e la Le Monde selon François di Bernadette Sauvaget, opinionista di Liberation, pubblicata per le Éditions du Cerf.

Merito principale della pubblicazione di Sauvaget è aver restituito alla storia le categorie papali di «cultura dell’incontro» e «pietà popolare»: è la storia dello scontro nell’ordine dei gesuiti tra i settori filo-marxisti e i fiancheggiatori del regime di Videla e, soprattutto, è quella di Bergoglio, chiamato come Provinciale per restaurare la concordia nella Compagnia argentina. Siamo negli anni del governo di Arrupe, che guida i gesuiti verso l’impegno politico-sociale, ma i riferimenti teologici del gesuita Bergoglio più che i teologi della rivoluzione sono Hans Urs von Balthasar e Romano Guardini, a cui dedicherà i suoi studi di dottorato in Germania. Secondo Fares, nasce da qui l’«antropologia politica» di Bergoglio, dalla concezione guardiniana della «prossimità» ai poveri e della «contemplazione» del Cristo negli ultimi. Nello stesso tempo – un punto centrale – la tensione all’unità assume fin dai primi interventi un valore politico di stampo organicista.

L’unità prima di tutto

Nella visione della «teologia del popolo» di Lucio Gera e Juan Carlos Scannone, maestri di Bergoglio e voci tutt’altro che inascoltate anche a sinistra, il mito nazional-cattolico si declina nell’idea che il tutto sia sempre superiore alla parte: un principio questo particolarmente caro anche all’attuale pontefice. Scannone insiste più sul significato teologico del popolo stesso che sulla sua liberazione politica e economica. Anche se questi significati non sono esclusi, c’è un’importante differenza di accento con la teologia della liberazione. La stessa che ritroviamo nella formula utilizzata da Bergoglio nel discorso di apertura della Congregazione generale del 1974 e poi ripresa nella Laudato si’: «L’unità è superiore al conflitto; il tutto è superiore alla parte; il tempo è superiore allo spazio».

Un’altra formula ricordata da Fares riguarda il «riconoscimento del senso di riserva religiosa che il popolo possiede», impiegata per la prima volta in un articolo del 1979, lo stesso anno della conferenza ecclesiale continentale di Puebla in cui Giovanni Paolo II attacca le teologie della liberazione. In questo caso, si tratta di un’affermazione che ha soprattutto un valore ermeneutico, dal momento che nell’impostazione di Bergoglio, mutuata dal Denzinger, il popolo fedele è «infallibile nel credere». Nella lezione del Vaticano II il «popolo di Dio» è però anche il protagonista della storia della salvezza e pertanto il compito della Chiesa deve «limitarsi» all’evangelizzazione delle differenti culture popolari, ciascuna delle quali «esige che il Cristo venga annunciato e accolto in modi differenti».

La parola chiave è dunque «inculturazione», categoria al centro dello scontro del 1988 sul decreto IV della XXXII Congregazione generale della Compagnia, dedicato alla realizzazione concreta dell’«opzione preferenziale per i poveri» raccomandata dal Concilio. Sulla rivista «Stromata» Bergoglio prende le distanze dallo «spiritualismo disincarnato dei conservatori e dall’attivismo secolarizzato dei filo-marxisti». L’anno seguente sulla medesima rivista lancia la questione della rifondazione del «politico» contro il neo-liberalismo e la subordinazione della democrazia alla tecnica e alla finanza.

Gli osservatori più attenti alla storia della Chiesa hanno osservato la permanenza nella riflessione di papa Francesco sull’economia politica di alcuni elementi tipici della mentalità anti-moderna. Gli attacchi al «messianismo profano» e alla politica «degli uomini gnostici» facevano già parte del linguaggio di Wojtyla e Ratzinger. La differenza con i predecessori la fanno i toni (decisamente più radicali), la centralità dei subalterni nella pastorale del pontefice e il contesto in cui i discorsi vengono pronunciati, dagli anni Duemila nell’Argentina devastata dal saccheggio neo-liberista alla crisi dell’ordine economico occidentale dei nostri giorni. Tra i discorsi politici proposti nell’antologia ce n’è uno del 2004 in cui il primate della Chiesa argentina ritorna sulle fratture della società nazionale come causa prima della sua decadenza e accusa la classe dirigente di aver perduto la sua capacità di mediazione e di essersi svenduta agli interessi della finanza. Nel 2007 le linee guida della «Chiesa missionaria» e dell’«opzione preferenziale per i poveri» sono state riprese nel Documento di Aparecida, in cui i vertici della Chiesa latinoamericana hanno elevato al livello programmatico gli orientamenti della teologia del popolo.

Gesti profetici

Da papa, infine, Bergoglio è tornato in molteplici occasioni a tuonare contro le delocalizzazioni e la «globalizzazione dell’indifferenza» alternando con grande sapienza comunicativa la parola al gesto «profetico»: dalla visita a Lampedusa alla preghiera davanti al Muro di separazione a Betlemme. Va notato, inoltre, che in occasione dei due incontri con i movimenti popolari (a Roma e a Santa Cruz) Francesco non ha esitato a sostenere la lotta dei poveri, riprendendo nuovamente la sua riflessione sul popolo come agente progressivo. La categoria del conflitto sociale è quindi presente, ma da una valutazione complessiva del discorso di Bergoglio emerge una sostanziale coerenza nel ragionamento che porta il pontefice a ribadire nell’ultima enciclica che «l’unità è (sempre) superiore al conflitto».

Francesco non è un marxista e neppure può essere ascritto alla sinistra post-conciliare, ma in maniera coerente con il suo percorso teologico e pastorale rilancia con successo la proposta cattolica perché torna a parlare del mondo e delle sue contraddizioni in modo puntuale e credibile. La forza comunicativa di questa proposta ci dice molto non solo della Chiesa di oggi, ma anche dei caratteri della società post-moderna, della crisi della sinistra e sulla trasformazioni dell’immaginario collettivo.