«Hallo», risponde con voce profonda Ulrich Seidl, quando l’ho chiamato nella casa in campagna vicino a Vienna per parlare di Im Keller, nella sezione Orizzonti. Già sfogliando il pressbook ci si può fare un’idea del tocco graffiante, con cui l’autore della pluripremiata trilogia Paradiso (i cui singoli film erano in concorso rispettivamente a Berlino, Venezia e Cannes) ha qui ritratto le sfere più intime del genere umano tra desideri occulti, memorabilia nostalgiche e perversioni sessuali. Tredici anni fa, il suo Canicola, esordio nella finzione dopo tanti documentari (anche televisivi), partì col Gran Premio della giuria da Venezia, quest’anno è un documentario a mostrarci come i vari Mister & Lady Normal se le vivono, queste loro passioni segrete, nelle cantine, appunto, come dice in modo molto preciso il titolo. Il cinema di Ulrich Seidl, classe 1952, affonda le radici nel mondo reale anche quando si muove nella finzione e, viceversa, immette elementi di finzione nel documentario per produrre una dimensione surreal-grottesco-umoristica, grazie a spropositate esagerazioni delle caratteristiche reali portandole all’ennesima potenza, ponendo il focus laddove – e i surrealisti lo sapevano bene – risiede la «verità più vera» e «il re è (sempre) nudo». In cantina fa emergere quella realtà sommersa scovata dal regista nelle storie a lui raccontate da coloro che poi le mettono in scena, per noi, con l’aiuto di Ulrich Seidl che si rivela sempre di più come sapiente direttore d’orchestra per suoni e immagini. «Il concetto documentario è ampio, lo sappiamo, nulla accade per caso, nemmeno qui, dove tutto è stato accuratamente (ri)costruito in una dimensione di finzione», ci tiene a puntualizzare colui che nel corso di una ventina d’anni (Good News è del 1990) ha firmato una cinquantina di titoli alternando documentari a finzione. Per raffigurare un universo abitato da personaggi iperrealistici che incarnano ciò che a volte urlano i titoli cubitali nei media: gli aspetti oscuri dell’anima. Seidl ha puntato molto in profondità i suoi fari nei sotterranei, non solo viennesi.
Come ha trovato le cantine che fanno da splendida scenografia per ottantacinque minuti?
Abbiamo sondato molto, io e i miei collaboratori, soprattutto lo stesso quesito del «come avvicinare persone disposte ad aprire le porte dei propri abissi?». Nelle cantine «funzionali», usate per lavare i panni, stirare o organizzare feste e festini, è facile arrivarci, più difficilmente si accede a locali del tipo che fanno da fulcro al film. Ci è venuto in aiuto, come spesso accade, il caso: per esempio, la cantina in cui si riunisce il gruppo di nazisti nostalgici ci è stata segnalata da qualcuno che aveva sentito dire che stavamo ricercando situazioni simili. Inizialmente giravamo come i venditori «porta a porta», bussavamo un po’ ovunque, distribuivamo volantini…
Parliamo della cantina nazi. Da un lato, penso, sia apprezzabile che quest’uomo viva apertamente la sua passione – nemmeno più tanto segreta – per quell’ideologia che aveva condotto negli abisso più neri milioni di persone non tantissimi decenni fa…
La banda musicale che di tanto in tanto si ritrova lì, di sicuro «sa», così come l’intero paese «sa», per cui quel suo pensiero rientra nella normalità. Il signor Ochs di fatto non è un neonazista, non recluta persone per azioni cospirative, anzi, vive nel suo mondo e difende quell’opinione politica. Come fanno in tanti, per altro…
Cosa ispira le sue storie?
Sono un uomo, guardo, sento, vedo, ascolto. Osservo molto e con attenzione, è vero, approfondisco molto prima di filmare. Per rimanere nel discorso sul nazikeller, abbiamo passato parecchi mesi per fare quel che si chiama «conoscenza» col padrone e può sembrare paradossale, ma quel signor Ochs non era tanto antipatico, anzi! Troppo facile scartare una persona perché la pensa in modo diverso, a me interessava esattamente questo: scovare ogni suo lato esternato in quella cantina. Ecco il mio cinema, molto ravvicinato alla vita. Del resto mi circondo di attori amatoriali proprio per portare più vitalità nelle storie rispetto a quanta ne apportano gli attori che spesso usano l’intero strumentario appreso per creare una scena, di alto livello, ma – «professionale».
Forse è la vitalità assieme al humour nero, tipico viennese – vien da dire – che fa sembrare i suoi film senza confini, o meglio, rispecchiare comportamenti umani universali, non legati a una nazionalità piuttosto che a una certa cultura. In Italia ha molti fan giovani che rimpiangono il fatto che sinora è stato distribuito soltanto «Canicola», dopo la vittoria al Lido.
Credo dipenda dalla situazione complessiva del cinema in Italia, dove mi sembra che la cultura cinematografica tout court abbia subìto un bel dietro front. Da giovane mi ero nutrito di cinema italiano, i classici del neorealismo, per non parlare di Pasolini! Ho l’impressione che tutto sto fermento visionario sia morto. Noi aspettavamo con ansia ogni nuova uscita di un film italiano.
Non è morto il fermento, è che rimane nell’underground, come le storie del suo film. A proposito, nell’elenco con le varie tipologie di cantine diffuse in Austria manca il teatro in cantina…
Negli anni settanta/ottanta andavo spesso a teatro, c’erano parecchie «cantine». Ora non so. Avevamo esteso la ricerca anche ai rifugi e quelli anti-atomici che in quello stesso periodo erano obbligatori per edifici pubblici. Li abbiamo anche filmati, sono rimasti fuori dal montaggio essendo diventato l’obiettivo del film rappresentare la cantina come luogo, fisico, e come luogo metaforico, che sta per paura, crimine, violenza, lato oscuro, ecc.
Il punto di partenza fu la cantina prigione di Natascha Kampusch?
No, mi avevano chiesto di lavorarci. Rifiutai. Il tema risale ai tempi della ricerca di location per Canicola, dove capitai in luoghi simili, assurdi. Mi rimase in testa e ora, passato un po’ di tempo dal delitto Kampusch (la notizia risale ad agosto 2006, ndr), era giunto il momento per me di riprenderlo in modo più generale, però. Delitti in cantina accadono un po’ dappertutto, un gran parlare c’è stato attorno a quelli successi in Austria. Forse perché qui sono «venuti alla luce»?