Per cinquemila anni nessuna vela, nessuna bandiera, comparve mai sul filo dei loro orizzonti. Sapevano scolpire la pietra, dare forma alla ceramica, intagliare il legno. Dalle profondità della terra, dall’acqua dei fiumi, estraevano l’oro e ne facevano oggetti e gioielli. Costruivano città, coltivavano i campi, avevano mogli e figli, conoscevano la medicina. Il nemico di una guerra aveva la stessa pelle, impugnava le stesse armi. Sopra di loro c’erano divinità e sovrani. Erano popoli, erano civiltà. Dall’altra parte del mondo, fino al 12 ottobre del 1492, sulle mappe degli atlanti, nelle pagine dei diari dei navigatori, non comparivano. A differenza dell’ “Hic sunt leones” sulle carte geografiche disegnate dai romani, che indicava i territori inesplorati dell’Africa, la Meosamerica e il Sud America erano luoghi inesistenti. E tali rimasero dal Terzo Millennio avanti Cristo al primo viaggio di Cristoforo Colombo. La conquista delle Americhe, così è giusto chiamarla, e non scoperta, rase al suolo in una manciata di decenni le culture Olmeca, Tlalica, Mazcala, Inca, Maya, Azteca, Chupícuaro, Zapoteca, Moche… «L’America? Il risultato di un errore di navigazione», ha affermato il regista Barry Levinson (Good Morning Vietnam, Rain Man). Un errore dalle conseguenze tragiche, un errore diventato orrore. Dopo Colombo arrivarono e navigarono oltre Hispaniola e Cuba, Cabral, Cortez, Magellano, Pizarro, Vespucci. Sterminarono per allargare i possedimenti della corona spagnola e portoghese, per aumentarne la potenza politica e la ricchezza. La linfa vitale della Conquista era l’oro. Nel resoconto del suo quarto viaggio all’Indie, pubblicato da Sellerio nel volume Lettere ai reali di Spagna, il navigatore genovese scrive «Dicono che colà (il luogo è Veragua, nome indio della costa occidentale dell’isola di Panama, ndr) vi sia un’infinita quantità di oro e che gli abitanti portano collari in testa e pesantissimi braccialetti d’oro ai piedi e alle braccia, e guarniscono e foderano d’oro le selle, gli stipi e i tavoli. Dicono pure che le donne di quel luogo portano collane che pendono dalla testa fin giù alle spalle». ‘Dicono’, e sovente quella diceria non aveva fondamento. Dicono, e nel dubbio, i bianchi razziavano, massacravano, distruggevano per sempre. Un domenicano, padre Bartolomé de Las Casas, gridò la propria indignazione di fronte a questi genocidi nella Brevissima relazione della distruzione delle Indie, 1542, inviata al principe Filippo di Spagna. Il testo è stato pubblicato in Italia da Marsilio Editori. Scrive de Las Casas «Cinquant’anni e più sono andato per quelle terre, e di tali nefandezze sono testimone, ché le ho viste commettere. Se Vostra altezza fosse a conoscenza delle imprese di certi tiranni, non potrebbe trattenersi dal supplicare Sua Maestà, con la più grande insistenza, di non autorizzare né permettere più quanto costoro hanno inventato, commesso e portato avanti sotto il nome di conquiste: le quali se fossero ancora tollerate tutto tornerebbe a ripetersi».

Molte testimonianze di quei popoli, di quelle civiltà, sono tornate alla luce nel corso del tempo. In mezzo, o sulla cima di alcune, si ferma il turista moderno scattando foto ricordo alla piramide Maya di Cholula o alle rovine di Machu Picchu. Altre testimonianze le conservano le vetrine dei musei, reperti e memorie assai meno spettacolari e dunque oggetto di sguardi occidentali distratti. Eppure, proprio quelle testimonianze ‘minori’ sono il veicolo giusto per compiere un viaggio che non si fermi ai Maya, agli Aztechi, agli Inca. E invece prosegua, incontrando popoli a semisconosciuti ai più. È il viaggio proposto dalla mostra Il mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella collezione Ligabue (Museo Archeologico Nazionale di Firenze, fino al 6 marzo). Percorrere cinquemila anni di storia in due ore è occasione, almeno in Italia, unica. Farlo trovandosi davanti agli occhi oltre duecento pezzi mai esposti prima rende la mostra a dir poco imperdibile. Ma è bene saperlo subito: comprendere la bellezza e la rarità di quanto ci si ritrova ad ammirare non passa attraverso un repertorio di opere “ad effetto”; richiede di soffermarsi a guardare, leggere, riflettere, tornare e ritornare su passi già compiuti. Della figura di Giancarlo Ligabue dà conto il box in queste pagine. Varrà invece evidenziare come questo imprenditore paleontologo abbia costruito una collezione di migliaia di esemplari senza mai ricorrere al furto o al saccheggio, prassi dei nuovi conquistadores, antiquari e mercanti, sovrani di un immenso traffico illegale in ogni parte del mondo. Ciascun pezzo è stato acquistato in aste ufficiali e scelto da Ligabue in base alle sue esperienze e alla sua cultura, maturate nel corso di oltre centotrenta spedizioni scientifiche. Racconta un collaboratore «Giancarlo, in Bolivia piuttosto che in Kazakistan, lavorava con archeologi locali, e quanto veniva trovato restava patrimonio di quel Paese. Ricordo che un giorno tirò fuori dal terreno un frammento di legno sul quale, a distanza di duemilacinquecento anni, c’erano ancora tracce di doratura. Chiamò un archeologo e glielo consegnò. I piccoli musei di molti siti sono nati proprio grazie ai finanziamenti di Giancarlo». Maschera funebre in rame ricoperto di lamina d’oro, cultura chimú – lambayeque, Perù, 1300 d.C. La gigantografia a colori di questa meraviglia grande appena ventisei centimetri campeggia sulla struttura che fa da ingresso al Mondo che non c’era. Il percorso avviene per temporalità e per aree: Panama, Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù, Argentina, Cile… A tali aree hanno fatto riferimento il curatore della mostra, Jacques Blazy, e il presidente del comitato scientifico André Delpuech, nello scegliere i pezzi dalla collezione Ligabue. Adriano Favaro, curatore del catalogo «La selezione è avvenuta seguendo un duplice criterio, estetico e di importanza storica e antropologica. Esistono altre collezioni in Italia, conservate in qualche museo, per esempio il Pigorini a Roma e il Castello Sforzesco a Milano. Genova ha acquisito, dopo la morte del proprietario, una serie di reperti di provenienza abusiva; Rimini quelli di un lascito privato. In Italia, la storia dell’America Latina non è narrata organicamente attraverso i materiali delle varie epoche. Anche nei musei i reperti sono sempre relegati nell’ombra. Ecco perché la mostra di Firenze, allestita con criteri precisi, rappresenta un vero e proprio avvenimento culturale. Grazie a Blazy e Delpuech si è andati positivamente oltre il desiderio del figlio di Giancarlo, Inti, di far conoscere al pubblico quanto il padre aveva radunato per anni e anni».

L’aggettivo ‘funebre’ che identifica la maschera chimú – lambayeque assume il ruolo di elemento portante dell’intero percorso. Vasellami, ceramiche, figure antropomorfe, monili, statuette di divinità provengono infatti, nella stragrande maggioranza, da scavi di cimiteri; pochissimi appartengono all’uso quotidiano. Dunque ogni oggetto è impregnato di simbologie e di significati complessi, se non indecifrabili, per chi non appartenga alla cerchia degli addetti ai lavori. Favaro cita l’oro, nella nostra accezione simbolo di ricchezza e di potere, nella cultura maya tramite di ingresso a un sistema celestiale e a un rapporto con altri mondi. Mostra e catalogo danno spiegazione di questo e di altri aspetti usando un linguaggio di immediata fruizione, capace di accrescere interesse e coinvolgimento. Ma c’è un secondo, affascinante, filo conduttore a fare da legante tra la Venere chupícuaro e l’urna zapoteca, il vaso coclé e l’ascia cerimoniale las bajas: la nascita della cultura mesoamericana è frutto delle linee di confine che separavano le singole culture e di tali culture si è nutrita. Favaro ha partecipato a svariate spedizioni di Giancarlo Ligabue. Uno dei suoi ricordi si lega, appunto, a questa sottile linea di demarcazione e alla sua permeabilità «Arrivammo, era il 1985, ai sarcofaghi funebri di Chachapoyas (Sierra Nord del Perù, ndr). Risalgono al Mille/Milleduecento avanti Cristo e sono disposti negli anfratti di una parete rocciosa lunga quattrocento metri. Nessuno era riuscito fino ad allora a fotografarli da vicino e a indagare su cosa contenessero: una mummia, resa tale dal contatto con l’aria. Chahapoyas è zona di confine vicino all’Ecuador, il punto in cui gli Inca trovarono la massima resistenza alla loro espansione. Le leggende parlano di centinaia di guerrieri che si buttarono dalle rupi per non arrendersi. I Chachapoyas e altri popoli furono i migliori alleati degli spagnoli contro gli Inca. Le spedizioni scientifiche si sono concentrate su queste genti, in parte soggiogate per più di un secolo da un impero ‘interno’ di conquistatori». Un impero immenso, efficiente, organizzato. Un mondo statale, afflitto però da un’elefantiasi progressiva che arrivò a mortificare, a immobilizzare, tutti gli impulsi culturali, tra le cause della debole resistenza contro gli eserciti di Pizarro. Al contrario delle grandi culture dell’America del Sud (Azteca, Inca, Maia), le culture di confine, regionale e sub regionali, sviluppatesi nella Mesoamerica, tentarono sempre di mantenere il loro linguaggio, le loro prerogative. E si spinsero molto lontano, lasciando tracce capaci di creare disordine e ripensamenti negli archeologi. Caral, Perù, duecento chilometri da Lima. Qui si innalzano tre modestissime alture. Di esse si era già fatto cenno in alcuni inventari dei Beni Culturali peruviani, ma nulla più. Sul finire degli anni ’80 del secolo scorso arriva una docente universitaria con i suoi studenti e inizia a scavare, scoprendo una città antica quanto le piramidi d’Egitto. La data d’inizio delle culture peruviane, fissata in precedenza a millecinquecento/ duemila anni prima di Cristo, viene arretrata di otto secoli. Quel popolo non conosceva la ceramica, trasportava l’acqua usando zucche svuotate, costruiva con mattoni crudi. I suoi rapporti con genti stanziate in aree lontane è provato da reperti che avvalorano l’ipotesi di un luogo di commerci e di scambi.

Dell’antologia delle scoperte nelle terre sud e mesoamericane rimane ancora moltissimo da scrivere. Ciò che è venuto, o sta venendo, alla luce, fa emergere con incontestabile evidenza il ruolo delle culture di confine. Purtroppo la corruzione dei funzionari davanti al denaro offerto dai mercanti; i furti degli huaqueros, i tombaroli, ha spogliato siti di estrema importanza. E tuttavia, la scoperta rimane El Dorado da cercare, poggiato su una storia di secoli dalla trama complessa. Basterà citare il sito funebre del Signore di Sipán, sulla costa peruviana, scavato, sempre negli anni ’80, dall’italiano Walter Alva con il National Geographic, quando ormai era ridotto a un colabrodo dalle incursioni degli huaqueros. Il National desiste, ma la successiva spedizione di Alva, nel 1987, trova, intatta, la tomba di un principe Moche con i suoi accompagnatori, colma di placche d’oro, spilloni, collane. La scoperta più significativa, in tema di culture di confine, è quella di alcuni semi di una pianta anticoagulante usata durante i sacrifici umani e coltivata nelle regioni molto più a nord della zona di Sipán. Ha scritto Giancarlo Ligabue “L’umanità è una sola e non si può dimenticare che, nella storia del mondo, non vi sono primi o secondi, grandi e piccoli, ma che in ogni popolo si ritrovano fermenti, origini, principi e radici di ciò che oggi noi siamo”. Vanno tenute a mente prima di entrare nel Mondo che non c’era.

 Info e catalogo

Il mondo che non c’era.

L’arte precolobiana nella Collezione Ligabue.

Firenze, Museo archeologico Nazionale

Palazzo della Crocetta, piazza ss. Annunziata 9b

fino al 6 marzo.

Per informazioni, tel. 055/294883

Prenotazioni gruppi, tel. 055/290112

Il catalogo, 362 pagine con oltre duecento foto a colori, curato da Adriano Favaro per 5 Continents Editions, costa 65 euro ed è reperibile anche in libreria. La spesa non deve sembrare eccessiva a fronte di un’opera in cui la cura e la chiarezza dei testi introduttivi sono eccellenti guide in un lungo viaggio dall’approccio non sempre facile. Fondamentale e appassionante il contributo di una nutrita schiera di archeologi dall’Italia e dall’Estero. A ciò va aggiunta la qualità di stampa e della rilegatura, che assegnano al volume un posto di tutto rispetto nella libreria di casa. Ripercorrere la mostra sfogliando le pagine del catalogo è come visitarla una seconda volta

 Giancarlo Ligabue

Imprenditore veneziano nel settore del catering a livello internazionale, Giancarlo Ligabue è scomparso il 15 gennaio del 2015, dopo una vita trascorsa con la mente ai doveri del lavoro e il cuore ai tanti luoghi dove organizzava spedizioni di grande rilievo. Dopo la laurea in economia, il conseguimento di un dottorato di ricerca presso la Sorbona. È degli anni ’70 del secolo scorso la decisione di creare un centro Studi e Ricerche, divenuto nel gennaio 2016 Fondazione Giancarlo Ligabue. Nell’arco di cinquant’anni, l’imprenditore paleontologo ha percorso i cinque continenti, portando alla luce, durante le campagne di scavi cui ha partecipato o da lui dirette, reperti archeologici, antropologici, giacimenti fossili di ominidi e di animali estinti. Tra questi ultimi il Ligabue saurus leanzai, risalente a 110 milioni di anni fa, ritrovato in Argentina. Il lavoro scientifico e l’attività di divulgatore gli hanno valso il conferimento di cinque lauree honoris causa da parte delle università di Bologna, Modena, Venezia, Lima e di Asgabat, Turkmenistan. Ligabue ha prodotto una settantina di documentari, molti dei quali andati in onda all’interno di Quark, il programma di Piero Angela, e su altre emittenti straniere. Tra le numerose donazioni da lui fatte a musei e istituti, spicca l’oranosaurus nigeriensis, scavato nel deserto del Niger e conservato nelle sale del Museo di Storia Naturale di Venezia