Sembra un personaggio d’altri tempi, lo si sarebbe visto bene accanto a poeti e scrittori di fine Ottocento come Charles Dickens o, soprattutto, Oscar Wilde. E invece da più di trent’anni è uno dei più influenti rocker dei nostri tempi. Il suo nome all’anagrafe recita Steven Patrick Morrissey, nato a Manchester, Inghilterra, il 22 maggio del 1959, ma il pubblico lo conosce semplicemente come Morrissey, e i fan e i più intimi lo chiamano Moz (altro richiamo a Dickens, il cui soprannome era Boz). Negli anni Ottanta era noto per essere la voce degli Smiths, band cardine della scena new wave britannica, una storia bellissima quanto breve, che durò lo spazio di qualche anno e di quattro album tra il 1984 e il 1987, anno dello scioglimento e del contemporaneo inizio della carriera solista del cantante di origini irlandesi, quel ragazzo timido e strambo che sul palco amava apparire con dei gladioli nei jeans. Ma Morrissey è stato ed è anche un personaggio e un artista scomodo, che non le ha mai mandate a dire con i suoi testi fitti di malinconia, di romanticismo, addirittura tragici, ma anche molto ironici e pungenti, testi che se la prendevano con le politiche dei paesi occidentali o che toccavano tematiche a lui care come il vegetarianismo e il veganesimo, o la sessualità. Argomenti a cui è rimasto fedele anche una volta lasciato il gruppo che lo ha portato ad avere fama internazionale e riconoscimenti da pubblico e critica, e che ha continuato a sviluppare nel corso di questi anni nei suoi lavori solisti, a partire dall’ultimo arrivato, World Peace Is None of Your Business (La pace del mondo non è affar vostro) uscito per la Harvest, in cui prende di mira pesantemente, ancora una volta, società e politica. Così come è rimasto fedele anche alla sua idea musicale, proseguendo in un discorso che unisce, anche se non sempre con risultati esaltanti, il pop al rock, contaminando il tutto – ed è questa la novità dell’ultimo lavoro – con sentori latinoamericani, grazie alla presenza di Gustavo Manzur, che lo coadiuva nella scrittura di tre brani.

Ma la genesi di questo nuovo album, il decimo, non è stata per nulla semplice, a cominciare dalle difficoltà che Morrissey ha incontrato nel trovare un’etichetta discografica che accettasse le sue istanze e accogliesse i suoi desideri artistici, e un po’ come era successo negli anni Novanta, quando fu costretto a restare fuori dal giro per sette anni, anche stavolta ha dovuto attendere molto per poter tornare a cantarla a tutti, a modo suo. E non solo attraverso il supporto fonografico, ma anche con un tour, partito da poco e che nei prossimi giorni toccherà alcune città italiane, a partire da Roma, dove si esibirà per due serate, lunedì 13 (data già sold out) e martedì 14 all’Atlantico Live, per proseguire con Milano dove è atteso giovedì 16 al Teatro Linear4Ciak, e poi Bologna (il 17 al Paladozza), Pescara (il 19 al Pala Giovanni Paolo II), e ancora alla Obihall di Firenze (il 21) per chiudere la minitournée italica il 22 al Gran Teatro Geox di Padova.

Alla vigilia di queste sue apparizioni sui nostri palchi lo abbiamo sentito. E proprio pensando al lungo periodo di attesa tra il suo precedente lavoro, Years of Refusal, e World Peace is None of Your Business – cinque anni che lo hanno visto spesso lamentarsi della difficoltà di legarsi a una label e trovare un nuovo contratto discografico – abbiamo provato a chiedergli quale idea si fosse fatto riguardo al ruolo delle etichette oggi. Ma ciò che è successo appena qualche giorno fa – una sua intervista in cui dichiara di avere un tumore in stato avanzato – ci spinge a ribaltare i termini e le domande, partendo così da quella che in realtà era stata la nostra ultima curiosità, come Morrissey immagina Morrisey da qui ai prossimi anni: «Non lo so! Non sono mai riuscito a guardare troppo avanti nel tempo. Ho sempre pensato che la fine sia vicina, per cui non faccio programmi, non so neanche dirti se sarò qui il prossimo marzo…». Una risposta che alla luce di questa orribile novità va letta in maniera completamente differente anziché come una semplice, ironica boutade alla Morrissey. Ma riprendiamo dall’inizio, dal Morrissey-pensiero sull’attuale situazione delle etichette discografiche: «Penso che se la musica pop in questo momento si trova in un gran bel casino, sia proprio a causa delle major. Mettono sotto contratto solo artisti banali, sempliciotti che non hanno nulla da dire. E così in classifica ci ritroviamo solo donne “femminili” e “morbide” e maschietti che sembrano tutti artisti di strada. È una sfortuna per chi ama davvero la musica. Abbiamo solo una chance: ucciderci (ride, ndr). Per quanto mi riguarda credo che la musica che faccio, che facciamo io e la mia band, abbia una base sociopolitica che alle major non piace, e quindi…».

La morte quindi, un tema spesso trattato dal musicista di Manchester, così come spesso nei suoi testi sono risuonate critiche, anche pesanti, verso le condizioni sociali e politiche nel suo paese e, più in generale, nel mondo occidentale. E a pochi giorni dal referendum che ha sancito la permanenza della Scozia all’interno del Regno Unito, non potevamo farci sfuggire l’occasione per conoscere la sua posizione a riguardo: «Sarei stato molto contento se la Scozia avesse votato per la sua indipendenza, ho sempre amato i popoli che si sono ribellati e che hanno saputo sfidare le dittature. Come molti altri penso che l’Inghilterra stia vivendo un momento molto difficile. Politicamente siamo ridicoli, e la dittatura della famiglia reale è fastidiosa. Tutti i giorni, ogni giorno, dobbiamo subire notizie su Kate Middleton, sul principe Harry, sul principe William, ed è pazzesco, direi tragico, visto che la maggioranza del popolo inglese non vuole la monarchia. La monarchia si è autoeletta, e così i britannici non hanno scelta, e se non si ha possibilità di scelta significa che non si è un paese democratico, che l’Inghilterra non lo è. Riguardo al mondo occidentale invece, mi sembra che la gente, dappertutto, stia cercando di cambiare le cose, e questo mi piace. Siamo veramente stanchi di fascismo, dittatori, despoti, di presidenti che amano la guerra, della corruzione e della povertà. La regina d’Inghilterra possiede tredici isole! E non ne ha certo bisogno! Se le vendesse potrebbe combattere facilmente la povertà. Ma lei è avida, e ancora riceve, ogni anno, ben 200 milioni di sterline dai lavoratori britannici. Tutto ciò è grottesco, oltre ad essere semplicemente vergognoso!».

Cerchiamo di riportare il discorso sulla musica, ma sul passato è un muro, e glissa galantemente su un paio di domande riguardanti gli Smiths e Johnny Marr – è evidente che la ferita non si sia ancora rimarginata del tutto -, e allora torniamo al presente, e alle influenze latin presenti nel nuovo album e alla collaborazione con Gustavo Manzur: «Gustavo ha avuto e ha una forte influenza su di me, e abbiamo scritto molte canzoni insieme, anche per il prossimo disco (album che avrebbe dovuto pubblicare con la stessa Harvest, ma che è in forse avendo già rotto il contratto in essere per divergenze sulla promozione di World Peace…, ndr). Ma in generale sono molto contento del rapporto con il resto della band, che è la stessa che mi ha supportato per il precedente lavoro. Più che una band, più che musicisti che suonano con me, sono dei cari amici».

Della formazione fanno parte, oltre a Manzur, anche i chitarristi Boz Boorer e Jesse Tobias, il bassista Solomon Walker e il batterista Matthew Walker, ma nella sua carriera solista Morrissey ha avuto accanto anche gente come Stephen Street o Alain Whyte, ma quali sono quelli con cui ha stabilito il miglior rapporto? «Non so perché la gente nomini sempre Stephen Street nonostante insieme abbiamo fatto un solo disco e non abbiamo mai suonato dal vivo, e parliamo di 26 anni fa! Devo dire che ho amato molto lavorare con Alain Whyte, ma è Boz che ci ha tenuti uniti, ed è purtroppo sottovalutato. Mi dà fastidio quando qualcuno mette a paragone i musicisti attuali con gli Smiths. Jesse, Solomon e Matthew sono decisamente più bravi, ma non ricevono il giusto apprezzamento. Johnny Marr, ad esempio, era un ottimo chitarrista, ma aveva un grande difetto, sul palco era troppo timido e nervoso».

Si fa un gran parlare riguardo a una presunta raccolta sui Ramones compilata da Morrissey, e la cosa ci sorprende non poco perché i nostri ricordi ci riportano a un suo articolo di quasi quarant’anni fa sul New Musical Express, una recensione, all’apparenza per nulla benevola, di un concerto dei Sex Pistols in quel di Manchester, e ce lo ricordavamo alquanto critico riguardo al punk in generale…

«No, ti sbagli! Io ho amato moltissimo il punk nei suoi primissimi anni. Non mi piaceva l’album dei Sex Pistols, la copertina e il titolo erano assolutamente terribili! Ho visto i loro primi tre concerti a Manchester, e mi piacquero molto. Ho amato però in particolare i Generation X e gli X-Ray Specks, e penso che i primi quattro dischi dei Ramones fossero incredibili. Ma è solo oggi che questi gruppi sono entrati a far parte del gusto generale, così come è successo per band come Velvet Underground, New York Dolls o Jobriath. Quando uscirono i loro primi lavori chi amava certi artisti era considerato un malato mentale, ma per fortuna oggi le cose sono cambiate e gli adolescenti ascoltano e amano un’artista come Nico. E penso che dovremmo essere felici per questo».

È arrivato il momento del congedo, rimaneva quell’ultima curiosità alla quale, oggi e domani, vorremmo poter dare ben altro significato.