Qualcuno se ne dovette accorgere, in Europa, soprattutto a Parigi, che quella carta che impacchettava preziose ceramiche provenienti dal Giappone non era così ordinaria. Non meritava di essere appallottolata e finire nel cestino. Come involucro, a volte, era meglio dell’oggetto che ricopriva. Le celebri xilografie policrome dei grandi maestri del periodo Edo (che in realtà va dai primi decenni del Seicento fino all’Ottocento inoltrato, 1868, assicurando attraverso la dinastia Tokugawa 250 anni di pace ininterrotta e prosperità del paese) non potevano sfuggire agli occhi allenati di editori raffinati né a quelli degli artisti meno accademici e con una «presa mobile» sulla vita moderna. Poi, c’erano i viaggiatori estremi, coloro che si avventuravano in Oriente e cominciarono a riportare fin dal Settecento, come souvenir, «cartoline» (le stampe stesse), i surimono (biglietti di auguri, spesso con brevi poesie scritte sopra, che si piegavano in orizzontale), oggetti laccati con i motivi dell’iconografia classica giapponese, pitture che rimandavano alle stagioni, alle variazioni atmosferiche, alla vivacità degli scambi commerciali nei villaggi.

4. HOKUSAI
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In quegli anni, il Giappone è in rapido mutamento e conta su una classe sociale – quella mercantile, oggi diremmo «borghese», chonin – che cresce vertiginosamente, assetata di rispecchiarsi in qualcosa, di lasciare il segno e trovarsi una identità propria che non sia più quella aristocratica dei samurai. La individuerà subito e sarà la rivoluzione dell’arte di massa, la «trivialità» di un gusto popolare che – pur partendo da elementi codificati da secoli – «canterà» la vita dell’inurbamento, il teatro kabuki, il pullulare dei porti, le attività quotidiane, la bellezza dei luoghi celebri (meishoe, paesaggi e scorci intrisi di letteratura, la cui matrice va ricercata nei versi dei poeti), la maliziosa seduzione femminile nelle case di piacere. Quest’ultima verrà anche vietata: ma Kitagawa Utamaro, il «griot» delle cortigiane del bordello Omagaki non riuscirà a staccarsi da quel tema, tanto da finire in prigione per aver disobbedito alle regole della censura.

La costellazione dei soggetti delle stampe è varia, ma sempre la stessa: ripetere un motivo, per gli artisti giapponesi, non era un’onta; casomai il tentativo comune era di portare alla perfezione un «genere» conosciuto. E per gli eccelsi, si trattava anche guardare ad ovest, per sperimentare l’illusionismo ottico, cimentarsi con le leggi prospettiche (ampiamente rivisitate in casa propria, con preferenza per le visioni a «volo d’uccello» o con una posizione dal basso: Hokusai, per esempio, allontana i piani in maniera inverosimile) e testare colori nuovi. Alle pitture su rotoli su grandi dimensioni si sostituiscono le xilografie, dapprima monocrome, poi sgargianti: Hiroshige introdurrà addirittura un tipo di blu che prenderà il suo stesso nome.

21. UTAMARO
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I confini delle certezze sono labili: siamo immersi nell’ukiyoe, il mondo fluttuante, che viaggia dentro nell’onda dell’impermanenza. Tokyo (Edo) è diventata la capitale amministrativa mentre Kyoto rimarrà la città imperiale: ogni shogun deve risiedere nella prima per almeno sei mesi l’anno così da non eludere il controllo e rispettare la centralizzazione del potere, tanto che l’arteria di collegamento principale del Tokaido verrà raffigurata in una serie best-seller da Utagawa Hiroshige. Gli editori faranno a gara a stampare e ristampare più volte quell’inaudito successo: le 53 stazioni di posta del Tokaido, la cui prima apparizione risale agli anni 1831/1834. Il ciclo lo possiamo vedere in sequenza nella mostra che si è appena inaugurata al Palazzo Reale di Milano e che sarà visitabile fino al 29 gennaio 2017. Qui, attraverso un percorso che si snoda per macrotemi, in duecento xilografie policrome – compresa l’altra serie «star», le 36 vedute del monte Fuji e i fogli dei 15 volumi del libro Manga di Katsushika Hokusai, lo strabiliante campionario di schizzi e disegni che somiglia a un album-archivio di tutte le possibili rappresentazioni, vademecum per il pittore doc – un intero corpus di opere giunto in prestito dalla collezione dell’Honolulu Museum of Art invita a un confronto serrato fra i tre maestri dell’ukiyoe, Hokusai, Hiroshige, Utamaro.

13. HIROSHIGE
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Curata da Rossella Menegazzo, docente di Storia dell’arte dell’Asia orientale all’università degli Studi di Milano, promossa e prodotta da Comune di Milano Cultura, Palazzo Reale, Mondo Mostre Skira, l’esposizione suggella il 150/mo anniversario delle relazioni tra Italia e Giappone e offre l’occasione per un ragionamento complessivo su quella moda – e pure passione autentica – per il japonisme che aiutò l’occidente a rovesciare e poi riformulare il suo linguaggio. Il tutto in direzione di un sintetismo visivo che scartasse dai temi storici, religiosi, mitologici e soprattutto dalla mimesi della natura per fondarsi sulla vita di città o sull’immagine mentale (e non retinica) del paesaggio stesso, restituito attraverso gli strumenti del mestiere: tavolozza d’invenzione, linee al posto di volumi e giustapposizione di superfici. Così, se per i cittadini comuni il Giappone rappresentava la fuga verso un altrove, per gli artisti era una questione di stile. A Parigi, il mercante Bing aprì la sua bottega di arte orientale nel 1871, poi direttamente da oltre Pacifico arrivò nel 1878 l’interprete Hayashi Tadamasa che aprì un suo negozio. Fra i visitatori più assidui di entrambi, Van Gogh, Edmond De Goncourt, Monet, Toulouse Lautrec.