Germano Sartelli, uno dei maggiori artisti italiani del secondo Novecento, è morto lunedì scorso a Imola, dov’era nato nel 1825 e dove avrebbe compiuto tra poco i 90 anni. Sartelli non è stato né un pittore, né uno scultore, ma s’è inventato oggetti plastici cercando tra i resti delle cose e architettando disvelative possibilità d’intervento creativo.
La prima sua notorietà la ebbe per aver lavorato nel manicomio di Imola quando vi si sperimentava la camera orgonica di Wilhelm Reich. I racconti dicono che egli fornisse i ricoverati di sigarette a condizione che gli dessero poi le cicche che, svuotate dal tabacco e aperte, venivano poi da lui applicate a tela o a carta in collage di piccoli rettangoli irregolari, di colore mutevole (per il rossetto e altro), dando così vita a opere non proprio informali, né del tutto astratte, ma d’interesse materico. I colori dei suoi quadri sono quelli della frammentata materia che usa; se essa non è varia, l’esito è monocromo. Di grande fascino furono (e sono) le ragnatele che, staccate da soffitte, vecchi mobili, androni trascurati, venivano da lui ricollocate, tese per quanto gli riusciva, all’interno di un rettangolo incorniciato, alcune col fondo, altre senza.
Sartelli aveva appreso la sua lezione da tutti, senza fermarsi su nessuno e senza copiare, ma semplicemente rifacendo. Il manierismo di Baj non gli era segreto, né le assicelle incollate da Hans Richter; non certo i buchi e i tagli di Fontana e nemmeno le trame intricatissime di Dubuffet. Alla ricerca del suo «vero», sperimentata una possibilità, ne tratteneva quel che gli restava.
L’artista italiano con cui lo si potrebbe più facilmente assimilare, fosse anche solo per i materiali anomali che l’uno e l’altro utilizzano, è probabilmente Alberto Burri, umbro, più giovane di dieci anni, se questa prossimità non fosse messa in dubbio dal costrutto di quest’ultimo che è «sul piano», mentre quello di Sartelli è piuttosto verticale, nell’aria. Burri cuce con grosse funi tele che stanno sdraiate, magari a volte le ingobbisce, ma il risultato è come di mappa; appendi un suo lavoro al muro, ma rimane disteso. Negli ultimi anni qualche grande plastica bruciacchiata, agglomerata con colle, sta verticale di fronte, mostrando uno spazio oltre, di là dall’oggetto, che forse potrebbe essere nato dalle ragnatele di Sartelli. Il quale, da Burri, non può che aver ricevuto suggerimenti infiniti, ma continuando a mostrare un qualche ritaglio di spazio che sta in piedi, nel quale compaiono oggetti in piedi. Finché, una decina d’anni fa, s’è messo a mostrare frammenti di metallo legati su fili anch’essi metallici che, a taluni, son parsi spartiti di latta per musiche misteriose, ad altri, anche secondo la loro forma, ritagli del cielo notturno, portati in galleria, un po’ come le angurie di Mattia Moreni, mezzelune incendiate cadute in un mare d’erba, ma non di Walt Whitman, o forse sì.