Un eterno ragazzo dallo sguardo triste, così appare David LaChapelle (Fairfield, Connecticut 1963, vive e lavora tra Los Angeles e le Hawaii) con il cappello alla Boy George, gli stivali texani e la giacca appartenuta ad un veterano della guerra del Vietnam da cui si intravede una maglietta rossa con il volto di Michael Jackson alla Che Guevara. La smania di accendere una sigaretta – che è lì, dietro l’orecchio – è dominata, almeno momentaneamente.
L’artista noto per i suoi scatti surreali, eccessivi e trasgressivi risponde pacato alle domande, prendendosi il tempo per riflettere e guardando sempre negli occhi. Intorno a lui, al primo piano di Palazzo delle Esposizioni (in questa sede nel 1999 era stata organizzata la mostra Hotel LaChapelle), un crescendo di opere drammatiche dove la figura umana scompare lentamente, come The Crash (2008), After the Deluge: Museum (2007), Black Friday at the apocalypse (2013), fino alla recentissima Aristocracy (2015): tasselli di cielo dai colori innaturali attraversato da aerei-uccelli. Ma è Deluge l’opera intorno a cui ruota l’intera mostra David LaChapelle, dopo il diluvio, a cura di Gianni Mercurio, promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura e Turismo e prodotta da Azienda Speciale Palaexpo, in collaborazione con Madeinart e David LaChapelle Studio (fino al 13 settembre).

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Questa grandissima stampa cromogenica che apre il percorso espositivo s’ispira – come è dichiarato nel titolo – al Diluvio Universale della Cappella Sistina ed è stata realizzata nel 2006, dopo un profondo travaglio interiore dell’autore. Un anno segnato anche dalla scelta di ritirarsi a vivere alle Hawaii e di non fotografare più le «celebrities», di cui pure riconosciamo volti noti in opere come Rape of Africa (Naomi Campbell), American Jesus e Archangel Michael (Michael Jackson).
Per il curatore è fondamentale sottolineare la straordinaria abilità del fotografo nel manipolare l’immagine senza far ricorso a Photoshop, ma costruendo dei set cinematografici con effetti speciali e l’uso determinante delle luci (in mostra sono presenti anche alcuni video musicali e documentari di backstage). «LaChapelle è andato oltre l’istanza realista – spiega Mercurio – inserendo nella fotografia una vena narrativa. È stato definito felliniano, ma non certo in chiave onirica. Nei lavori precedenti a Deluge c’è un’evidente vena surrealista, però il suo essere un po’ felliniano sta più nel modo di costruire i set e far lavorare i caratteri, manipolando personaggi famosi. Nelle sue immagini tutto è possibile».

LaChapelle, lei ha affermato che, all’inizio della carriera, fotografare molte persone, o meglio personalità, era un modo per ricostruire il mondo della cultura popolare. Forse anche per riscrivere la storia?
Riscrivere la storia è una grande sfida. Non credo che questa fosse la mia idea. Fotografare era semplicemente il mio modo per relazionarmi al presente.

La scelta del bianco e nero che ha caratterizzato il lavoro fino agli anni ’90 era legata alla paura di essere sieropositivo. Il colore ha rappresentato l’uscita da un incubo. La saturazione cromatica sembra sottolineare il meccanismo dell’eccesso. È così?
Ho cominciato con il bianco e nero e la camera oscura, come tutti. Lavoravo anche a colori perché collaboravo con le riviste (tra le altre Vogue, The Face, Vanity Fair, New York Times Magazine, ndr). È vero, però, che quando finalmente ho scoperto di non essere sieropositivo – per timore, per tanto tempo non ho fatto il test – ho usato il colore in modo celebrativo. La fotografia è liberatoria, permette di oltrepassare i confini.

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Nel suo linguaggio iperrealista ci sono due punti di riferimento fondamentali: Warhol, che le affidò le copertine di «Interview Magazine», e Michelangelo…
Ricordo che ero molto giovane quando scoprii Michelangelo. Quanto a Warhol, durante una gita scolastica, vedendo in un museo una sua mostra mi dissi che doveva trattarsi di qualcosa di proibito, per adulti, anche se erano soltanto dei quadri di Marilyn. Michelangelo, come Warhol, è un artista pop perché si vede dappertutto, sulle tazze da caffè, calendari… La sua è un tipo di arte popolare che arriva a tutti.

Dalla velocità che accompagna i suoi primi ritratti arriviamo a costruzioni sofisticate che necessitano di tempi di produzione molto diversi… L’intuito resta sempre determinante?
Sì, certamente. L’intuito è qualcosa di molto importante nell’esistenza, non solo nell’arte. La maggior parte delle mie decisioni, come agire, affrontare la vita e come capire le persone, arriva da lì.

Umorismo e provocazione sono anche due «topos» della fotografia di moda. In che modo si riallacciano alla sua idea di sublime che contempla anche la catastrofe?
La fotografia di moda non si confronta con idee profonde. C’è un’esagerazione nell’uso dei termini: è tutto bellissimo, geniale, addirittura sublime. Ma il sublime è una cosa rara che si trova nella natura e, meno frequentemente, nell’arte. Io provo a raggiungerlo, ma non so se ci riesco, né se altri artisti raggiungano l’obiettivo. Per me il sublime è una reazione fisica dell’individuo, quando si commuove di fronte a qualcosa. Ad esempio quando nasce un figlio, oppure osservando un paesaggio naturale. Un’emozione del genere mi è capitata quando ho avuto la possibilità di vedere la Cappela Sistina da solo, senza i rumori degli altri visitatori intorno. È stata un’esperienza mozzafiato.

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Lo «snapshot» non fa parte della sua visione. Qual è, se c’è, uno stratagemma per cogliere l’attimo?
Fotografo finché non arrivo dove voglio arrivare. Organizzo il set, metto in posa i modelli, curando tutti i particolari e poi sopraggiunge anche la magia. In Pietà, Courtney Love, la vedova di Kurt Cobain, incarnava la Pietà con il corpo del marito morto sulle ginocchia: spontaneamente, sono scese le lacrime.
Ha ritratto Alexander McQueen, Uma Thurman, Elizabeth Taylor, Whitney Houston, Moby, Michael Jackson, Naomi Campbell, Jeff Koons… c’è una storia da raccontare?
Ne avrei a migliaia, di storie. Il mio rapporto con le celebrità è amichevole, anche se le persone con cui trascorro il mio tempo sono altre. La vita di una «celebrity» non è facile, si diventa un individuo «fuori di sé». Alcuni, hanno compreso subito il potere dell’immagine fotografica (Marilyn, Greta Garbo o James Dean). Non è un caso che quelli che non si lasciano coninvolgere dai fotografi, poi non abbiamo una lunga carriera. C’è una famosa foto di James Dean a Times Square con il cappotto dal bavero rialzato e la sigaretta accesa. Sembra un’immagine spontanea, ma fa parte di un servizio fotografico scattato da Dennis Stock nel 1955. L’immagine per Dean non aveva segreti!