Gli ultimi dati Istat sul rallentamento della crescita economica italiana chiudono il cerchio sul panorama asfittico in cui stiamo vivendo. I dati del secondo trimestre 2015 indicano un +0.2% del Pil, che rischia di essere lontano dall’obiettivo governativo di una crescita annuale dello 0.7%. I dati al di sotto delle attese riguardano anche le due principali potenze continentali e danno il senso del quadro generale: la Germania aumenta il prodotto interno per un modesto 0.4%, la Francia è tornata a una crescita zero.

In Europa continuano a non vedersi vere e proprie locomotive, se non nelle scelte di politica economica basate su rigore finanziario e austerità, e buona parte dei vagoni continua ad arrangiarsi in un contesto di sostanziale stagnazione intorno allo zerovirgolaqualcosa. Eppure non sono solo le rigidità di bilancio a non produrre gli effetti attesi, ma neppure alcuni fattori ritenuti particolarmente vantaggiosi per le economie europee, quali il calo dei prezzi delle materie prime e la diminuzione del valore dell’euro, conseguenza della moneta facile immessa con il cosiddetto quantitative easing. Secondo la logica mercantilista a guida tedesca proprio queste dovrebbero essere le ricette per la ripresa, invece sempre nuovi fattori destabilizzanti costringono a rimandare un’inversione di tendenza compiuta.

Ieri la crisi greca, oggi gli affanni delle economie emergenti. Raramente si mette in evidenza come il contesto generale resti così fragile da soffrire qualsiasi elemento negativo e come i problemi di ordine strutturale non siano stati ancora risolti. È sufficiente riflettere sui dati che inchiodano l’Italia. Non si tratta di mettere o meno in evidenza lo zerovirgolaqualcosa in più, ma di comprendere come tale modesto rimbalzo avvenga dopo una contrazione durata sostanzialmente sette lunghi anni, con un crollo del Pil superiore a 10 punti percentuali e che Confindustria ha paragonato ai danni provocati da una guerra. Per recuperare i livelli precedenti si ipotizza tassi di crescita straordinari e al contempo inverosimili per il prossimo decennio. Il ritorno all’attuale modestissima crescita appare in concomitanza con un progressivo aumento del debito pubblico, che dall’inizio del 2014 alla metà del 2015 è passato in termini assoluti da 2.089 a 2.203 miliardi di euro, cioè dal 128 al 135% circa del Pil. Un dato corrispondente alle tendenze globali descritte dalla società Mc Kinsley che indica nel travaso dai debiti privati a quelli pubblici una delle operazioni finanziarie in corso. Un travaso nato per salvare i debiti privati, ma anche il risultato di una trasformazione nelle proporzioni tra debito privato e pubblico causata, perlomeno nei paesi occidentali, proprio dalla crisi. Il contesto di incertezza, infatti, ha ridotto consumi e indebitamento.

Una recente ricerca della Cgia di Mestre racconta di come in Italia vi siano stati «meno acquisti, meno investimenti e più risparmi» a partire dal 2011. Tale tendenza è stata il frutto di un processo per rientrare dai debiti, contrarne di meno e risparmiare in maniera più consistente. Quest’ultimo aspetto va sottolineato, poiché a fronte di anni di riduzione dei redditi complessivi i risparmi sono aumentati del 15.8%, con i depositi bancari che sono passati da 756 a 875 miliardi di euro. Le cause della riduzione dei debiti sono molteplici, dalla stretta creditizia alla diffusione dell’insicurezza sociale, ma gli effetti sembrano ricadere tutti sull’economia interna piuttosto che sulla finanza creativa. Il debito, poi, incide percentualmente di più sui nuclei più poveri, ma la contrazione in termini assoluti si registra nelle aree più ricche del paese, a conferma di una crisi che colpisce ovunque. Il debito resta così il principale motore dell’attuale economia, ma resta un motore ingolfato. Con buona pace delle sirene governative.