«Freniamo gli entusiasmi», «per ora nessuna svolta», «vedremo nelle prossime settimane», «dei Talebani non mi fido». Dall’Afghanistan arrivano messaggi chiari: qualsiasi entusiasmo è prematuro. È vero, il comunicato con cui il mullah Omar, il leader della guerriglia talebana, ha dichiarato che il negoziato è legittimo è un passaggio importante. Segna una svolta. Avalla i colloqui informali e non che si sono svolti negli ultimi mesi.

E si somma alla notizia, confermata nei giorni scorsi dal Consigliere per la sicurezza nazionale, Hanif Atmar, che il secondo incontro ufficiale tra i rappresentanti del governo e quelli dei barbuti si terrà il 30 luglio. Ma prima che gli incontri e le dichiarazioni producano i loro effetti sul terreno di battaglia ci vorrà del tempo. I tempi della diplomazia. Lunghi in ogni caso. E particolarmente in quello afghano, dove sia il fronte governativo sia quello anti-governativo sono frammentati. Qualcuno a Kabul azzarda letture perfino meno ottimistiche: il messaggio dell’Amir-ul-Momineem, il «comandante dei credenti», non sarebbe tanto un segno di forza, quanto un sintomo di debolezza. Una reazione, più che una decisione vera e propria. L’ultimo tentativo della vecchia guardia dei Talebani, la shura di Quetta, il consiglio legato all’Emirato islamico d’Afghanistan (il governo rovesciato dagli americani nel 2001), di rimanere in sella. Di continuare a esercitare egemonia politica all’interno di una galassia sempre meno coesa. E di rispondere alle insidie rappresentate dalla presenza in Afghanistan degli uomini dello Stato islamico.

La disputa in atto

La disputa tra Talebani e Stato islamico non riguarda tanto le questioni ideologiche o dottrinarie (le differenze ci sono, rilevanti), ma il denaro. Gli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi arrivano con soldi veri, «pesanti». Quelli che i paesi del Golfo hanno deciso di tagliare ai Talebani, un investimento poco produttivo, e di dirottare sul Califfo, un marchio in espansione.

Nel paese centroasiatico i seguaci del Califfo – pochi per ora – hanno comprato alcuni comandanti talebani. Sono arrivate le scomuniche, i combattimenti, gli scontri feroci. E i comunicati. Il 16 giugno mullah Akhtar Mohammad Mansour, il vice del mullah Omar, l’uomo che in assenza del gran capo guida il Consiglio della leadership, ha reso pubblica una lettera in cui si rivolgeva al Califfo.

Toni pacati, messaggio chiaro: «giù le mani dall’Afghanistan», «non portate divisione nella guerriglia», «il fronte rimanga unico». Poi è arrivato il comunicato del mullah Omar. Con un messaggio ancora una volta rivolto ad al-Baghdadi, in modo implicito ma evidente: «abbiamo sollecitato tutti i nostri mujaheddin a preservare la loro unità e a prevenire energicamente tutti quegli elementi che provano a creare differenze, danneggiare il jihad, disperdere i mujaheddin». Un mullah Omar in difesa dunque. Che chiama a raccolta i suoi militanti. Che respinge i tentativi di infiltrazione dello Stato islamico.

Una mossa obbligata

Che prova a dimostrare che alla guida del jihad in Afghanistan c’è lui, e solo lui. E soprattutto che è ancora vivo. Una mossa obbligata: nelle ultime settimane gli uomini dello Stato islamico e delle fazioni talebane antagoniste hanno messo in piedi una vera e propria campagna mediatica. Obiettivo, dimostrare che il mullah Omar è morto. O che non conta più nulla, perché nelle mani dei servizi pakistani.

Nei social network dei militanti islamisti si sono moltiplicati gli appelli: «se ci sei, batti un colpo». Mullah Omar (molto più probabilmente chi per lui) si è fatto vivo. Non con un messaggio audio o video, che avrebbe potuto dimostrare che davvero è ancora vivo, ma con il solito comunicato, scritto in occasione dell’avvicinarsi della fine del Ramadan. Il risultato? Uscendo allo scoperto, mullah Omar rassicura i comandanti più fedeli, ma conferma paradossalmente la propria debolezza. Quella di chi non detta l’agenda, ma è costretto a inseguire. Una debolezza che peserà molto sul tavolo negoziale. Quando diventeranno evidenti le spaccature interne al movimento talebano.

Le stesse esplose alla vigilia delle elezioni presidenziali dello scorso anno. Quando i barbuti si sono spaccati tra quanti (i duri e puri alla Haqqani) pensavano soltanto a sabotare il processo elettorale con attentati efferati; il gruppo pronto a sostenere il candidato pashtun Ashraf Ghani; coloro che ritenevano invece che la vittoria del candidato tagiko Abdullah Abdullah avrebbe favorito la mobilitazione dei pashtun, incrementando le fila dei combattenti. All’epoca, il movimento è uscito dall’impasse con le ossa un po’ rotte, ma con una mossa pragmatica: sostegno indiretto a Ghani, considerato un interlocutore più malleabile in vista del negoziato di pace. Oggi quel negoziato si avvicina.

È il momento della caparra

I Talebani provano a riscuotere la «caparra» versata in quell’occasione. E il messaggio del mullah Omar finisce per rafforzare proprio il governo di Kabul. Paralizzato dall’antagonismo tra il presidente Ghani e il quasi «primo ministro» Abdullah, lontano dal soddisfare le aspettative che aveva suscitato all’inizio, il governo afghano potrà vendere l’apertura di Omar al dialogo come un proprio successo. Uno dei pochi, finora. Ma sul tavolo rimangono molti aspetti critici, oltre alle divisioni interne ai due fronti. Tra questi, proprio il «doppio passo» – combattimenti e insieme negoziato – rivendicato dal mullah Omar. Senza un cessate il fuoco immediato – chiesto la scorsa settimana da Mutasim Agha, già ministro delle Finanze talebane – si rischia che aumenti lo stillicidio della popolazione civile.

Perché più si picchia sul campo di battaglia – così pensa una delle fazioni dei barbuti – più si ottiene al tavolo negoziale. Nelle ultime settimane nel paese c’è stato un incremento notevole degli attacchi, degli scontri, delle vittime civili. In almeno 26 delle 34 province del paese. Dal nord a sud, da est a ovest.

Tra gli attacchi più sanguinosi, quello del 12 luglio a Khost. Un attentato suicida contro un checkpoint della polizia, fuori Camp Chapman, la base militare che ospita alcune unità delle Forze speciali degli Stati Uniti. L’obiettivo non era casuale: quel checkpoint è gestito dagli uomini della Khost Protection Force, un’unità militare che, addestrata dalla Cia, ha la responsabilità delle operazioni di contro-terrorismo lungo il confine pakistano. Il confine più poroso del paese, lungo il quale viaggiano militanti, armi, soldi, droga.

Il confine più poroso

Fin dal primo jihad contro gli invasori sovietici, è sempre stato fondamentale nella partita afghana. Oggi lo è ancora di più. I rifugi dei talebani afghani in Pakistan, nel Waziristan del nord e del sud, non sono più così sicuri come una volta. Per due ragioni. La prima è che il governo pakistano – preoccupato del mostro incontrollabile che ha nutrito finora, una minaccia per la stessa stabilità interna – vuol dar segno di aver archiviato la tradizionale politica di sostegno ai barbuti islamisti, e ogni tanto invia truppe speciali e unità d’assalto. La seconda è che alcune frange dei Talebani afghani guardano con sospetto a Islamabad. Sanno di poter essere vendute. I più radicali ritengono inoltre che il negoziato di pace non possa portare nulla di buono.

Per questo hanno cominciato a trasferire uomini e armi dai vecchi rifugi pakistani alle province orientali dell’Afghanistan. È un segnale di una tendenza più generale: i rapporti tra i Talebani e i tradizionali sponsor regionali sono cambiati. Se una parte dell’establishment pakistano ha cambiato orientamento, i cinesi hanno smesso di finanziare i Talebani. I paesi del Golfo – come abbiamo visto – hanno dirottato i soldi verso lo Stato islamico.

Gli iraniani ne hanno preso il posto, ma solo in parte e con prudenza. I Talebani sono a secco, o quasi. Nel suo comunicato il mullah Omar ha chiesto «a tutti i musulmani del mondo e specialmente alle pie masse afghane di aumentare il sostegno fisico e finanziario ai mujaheddin». La guerra sarà pure santa, ma gli uomini – incluso l’Amir-ul-Momineem, mullah Omar – rimangono dei grandi peccatori.